L’estensione e la gravità della crisi, iniziata nel 2008, è dimostrata dal fallimento dei centri di governo dell’economia mondiale. Inutile sembra essere stata la trasformazione del G7 in G20, che appare paralizzato dalle tensioni tra le potenze economiche, mentre l’egemonia degli Usa è contestata da tutti e un nuovo protezionismo, come durante la Grande crisi degli anni ’30, si manifesta attraverso la “guerra valutaria”.
Questa crisi non è semplicemente una crisi finanziaria né una crisi congiunturale. Si tratta della fine del ciclo d’accumulazione iniziato dopo la Seconda guerra mondiale, che apre una fase di instabilità e di conflittualità internazionale. La crisi ha prodotto 30 milioni di nuovi disoccupati a livello mondiale e, nonostante i 14mila miliardi di dollari profusi nel sistema finanziario dagli stati più sviluppati, è tutt’altro che risolta. Anzi, si è trasformata da crisi del sistema produttivo e finanziario in crisi del debito pubblico. Il fatto è che alle crisi di sovrapproduzione di capitale e di merci, ripresentatesi a partire dal 1974-‘75, si è risposto con la creazione di bolle finanziarie che, scoppiando, hanno riproposto la crisi, solamente su basi sempre più larghe.
La ricetta neoliberista per contrastare la caduta del saggio di profitto - comprendente privatizzazioni, deregolamentazione finanziaria, riduzione dei salari e del welfare - ha aumentato lo scollamento tra produzione e mercato capitalistici. Il fallimento del mito liberista delle virtù del mercato autoregolantesi è ormai evidente, a rinnovata conferma delle tesi di Marx sulle contraddizioni del modo di produzione attuale.
Di fronte a questa situazione quali sono state le reazioni della sinistra europea? Ad un recente convegno, organizzato da Italianieuropei, un parlamentare della SPD tedesca rilevava che, mentre dagli anni ’50 a 10 anni fa la sinistra in Europa era maggioranza, oggi solo 5 capi di governo e di stato su 27 sono di sinistra. L’esponente SPD concludeva chiedendosi quale sia oggi l’identità comune della socialdemocrazia e della sinistra europee. La questione è proprio questa. Di fronte alla crisi del modello di accumulazione capitalistico, a partire dagli anni ’80-’90, la maggioranza della sinistra europea si è troppo spesso allineata alla destra economica, finendo così per perdere identità e consensi.
Oggi, la gravità della crisi ci impone di riprendere in mano i fondamentali della critica alla società capitalistica, perché l’affermazione della centralità del mercato e dell’impresa non arrestano la crisi, ma la trasformano in crisi generale. Ciò vuol dire che, in alternativa al concetto di mercato autoregolato, va ripreso quello di programmazione economica. E va ripreso, in alternativa alla centralità dell’impresa privata, l’intervento dello Stato nell’economia. Non nel senso di socializzazione della perdite, o di finanziamenti e sgravi fiscali a fondo perduto e a chi delocalizza. Ma nel senso, invece, di dare regolamentazione e indirizzo ai mercati dei capitali e alla produzione di beni e servizi.
Non si tratta, però, solo di una questione economica bensì di una questione politica. Si tratta cioè di recuperare una radicalità che non sia utopismo, ma la capacità di andare alla radice dei problemi e proporre soluzioni conseguenti. E si tratta di conquistare, attorno alle proposte, il consenso dei cittadini-lavoratori. A questo proposito quanto accaduto in Grecia alle recenti elezioni è, a mio parere, significativo.
L’unico partito a guadagnare consensi in termini di voti assoluti, a fronte di un astensionismo record al 40%, è stato il partito comunista, il KKE. Questo è passato dal 7,5% all’11% dei voti, mentre il Pasok ha perso 10 punti percentuali e un milione di voti. Inoltre, a differenza dell’Olanda e della Svezia, in Grecia la crisi non premia i partiti di estrema destra nazionalisti e xenofobi, che anzi perdono consensi.
I risultati delle elezioni in Grecia parlano a tutta l’Europa e dicono che non solo la critica radicale al capitalismo è necessaria, ma anche che su tale critica può crescere il consenso.
Ma tale risultato non cala dal cielo e in questo senso la Grecia parla in particolare a noi italiani. Infatti, in Grecia si è potuto raccogliere questo risultato perché si è salvaguardato il valore costituito dall’autonomia politica e organizzativa dei comunisti, cioè il partito.
In Italia, invece, si è prima dissolto un grande patrimonio storico con lo scioglimento del PCI, e poi si è creduto che si potesse raccogliere tanto più consenso quanto più ci si allontanava da quella tradizione e da quei contenuti. I risultati sono stati la frammentazione organizzativa e l’indebolimento politico, non solo di quelli che ancora si ritengono comunisti, ma anche della sinistra in generale.
Oggi, dunque, si pongono due necessità tra loro connesse: l’unità della sinistra e l’unità dei comunisti. I tempi sono maturi per una riunificazione di Prc e PdCI, la cui divisione non ha più senso. L’unità in un solo partito è una precondizione necessaria ad adeguare i comunisti culturalmente e politicamente alla fase storica nuova e drammatica che si è aperta. Inoltre, l’unità dei comunisti dovrebbe essere vista dal resto della sinistra non come un ostacolo, ma come un rafforzamento del proprio fronte e quindi dell’unità più generale della sinistra.
Questo dovrebbe essere chiaro a tutti coloro i quali si siano resi conto che il bipolarismo - e ancor di più il tentativo di piegarlo a bipartitismo – hanno avuto conseguenze devastanti per tutta la sinistra e per il Paese, regalandoci un quindicennio di dominio berlusconiano e, soprattutto, l’egemonia di politiche economico-sociali di destra.
Domenico Moro
Comitato centrale PdCI – direttivo nazionale Associazione Marx XXI
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