Documento politico per
il 7º Congresso (straordinario) del PdCI
1-Un congresso
straordinarioLa scelta di convocare un congresso straordinario sorge dalla
crisi profonda di consenso politico e di radicamento sociale dei comunisti e
della sinistra (evidenziata anche dai risultati elettorali del febbraio e del
maggio 2013) che non ha precedenti nella storia repubblicana del nostro Paese,
e che è tanto più grave in quanto va in senso inverso rispetto alla ripresa che
si verifica invece nella maggior parte dei paesi europei.
Non si tratta di un
congresso per discutere di tutto: dobbiamo concentrare l'attenzione sulle
novità della situazione italiana ed europea degli ultimi due anni e sui nodi
dirimenti della riorganizzazione politica dei comunisti e della sinistra in
Italia.
2-Il valore delle tesi
fondamentali del precedente congressoLe tesi del nostro 6° congresso (ottobre
2011) contengono una elaborazione strategica su una serie di questioni non
contingenti, di cui confermiamo il valore e di cui troviamo conferma negli
sviluppi della situazione mondiale ed europea dell'ultimo periodo. Tra queste:
-il bilancio
storico-critico (ma non liquidatorio) dell'esperienza di costruzione del
socialismo nel XX secolo e le prospettive del socialismo nel XXI;
-la natura della crisi
del capitalismo e la sua influenza sulla prospettiva storica del socialismo e
del comunismo;
- il ruolo
dell'economia mista nella fase di transizione;
- l’indispensabile
coniugazione, in termini di rapporti tra i generi e tra le generazioni, delle
politiche di volta in volta necessarie a combattere gli effetti devastanti
della crisi;
- l'analisi del quadro
internazionale e la centralità del ruolo dei BRICS e soprattutto della Cina
nella costruzione di un nuovo contesto internazionale progressivo, in cui si
creino condizioni più favorevoli alla lotta per il socialismo;
- il crescente ricorso
alla guerra e all'interventismo militare da parte delle grandi potenze
imperialistiche dell'asse euro-atlantico, della Nato e di Israele (guerra in
Libia, intervento militare francese in Mali, interferenze militari e minacce di
guerra alla Siria e all'Iran). Per cui ribadiamo il rifiuto di qualsiasi
ipotesi di intervento militare italiano - diretto o indiretto - negli scenari
di guerra;
- la valutazione
critica non congiunturale degli assi portanti dell'Unione europea;
- la proposta di
ricomposizione unitaria dei comunisti e delle comuniste, su una piattaforma
comune, per la ricostruzione di un nuovo partito comunista nel nostro Paese, in
un contesto unitario a sinistra, e le caratteristiche fondamentali di questo
partito;
-la nostra partecipazione
convinta al processo in atto di ricostruzione di un movimento comunista e
rivoluzionario a livello mondiale e continentale;
-l'esigenza di un
arricchimento della cultura marxista, capace di portare a sintesi le questioni
di classe e quelle di genere ed una attenzione permanente alla problematica dei
diritti civili ed il principio della laicità dello Stato, la pari dignità per
le coppie omosessuali, etc.;
-l'importanza crescente
delle problematiche connesse allo sviluppo sostenibile, all'equilibrio
dell'eco-sistema, alla promozione di fonti energetiche alternative, al
controllo pubblico dell'acqua e dei cosiddetti “beni comuni”.
Quelle tesi
fondamentali (e le schede programmatiche allegate) costituiscono la base,
confermata dallo svolgimento degli avvenimenti, della nostra elaborazione
complessiva.
3-Una crisi epocaleLa
crisi capitalistica attuale è profondissima (strutturale e sistemica). È crisi
dei meccanismi di accumulazione e riproduzione capitalistica, coinvolge gli
Stati in prima persona (il debito pubblico), ma investe l’intera economia della
triade imperialistica (Usa, Ue, Giappone).
Se, nel riconoscimento
unanime del carattere epocale della crisi si manifestano, come è normale che
sia, alcune differenze di analisi anche tra i teorici marxisti, una cosa sembra
certa: dopo la crisi, come dopo una guerra di grandi dimensioni, il mondo non
sarà lo stesso: gli esiti che questa crisi produrrà saranno - nell’economia
come nella società, nella mentalità di massa come nelle istituzioni politiche -
o di carattere regressivo o di carattere progressivo.
Lo sbocco che alla
crisi si potrà dare dipende dal modo in cui i soggetti politici, sindacali,
statuali organizzati, in qualsiasi forma, agiranno. Essa segna uno spartiacque
nella storia del mondo e il modo in cui i soggetti politici e sindacali si
muovono di fronte ad essa è una cartina di tornasole della loro adeguatezza
storica. La crisi può e potrà produrre rapidi sconvolgimenti non solo in campo
economico e sociale, ma nelle organizzazioni politiche e nelle istituzioni
degli Stati.
4-Necessità del
socialismoLa crisi investe non solo l'economia, ma anche la politica, la
democrazia rappresentativa, le relazioni sociali e di genere, l’aggravamento
delle condizioni dell’eco-sistema, la crescente scarsità e le guerre per le
risorse (dal petrolio all’acqua) che si stanno susseguendo, la qualità delle
relazioni tra gli esseri umani: è crisi di civiltà. E segnala la natura e le
potenzialità distruttive del capitalismo allo stadio attuale del suo sviluppo.
Da qui sorge la
necessità storico-politica del socialismo e l'esigenza di rilanciarne la
prospettiva: con la consapevolezza che ciò comporta una fase non breve di
transizione nella storia del mondo, e quindi la necessità che in ogni Paese o
area del mondo si individuino le tappe concrete e possibili di avanzamento in
quella prospettiva.
Compito dei comunisti è
quello di collegare, in questa parte del mondo, radicalità della prospettiva
socialista e realismo di un programma minimo progressivo e credibile per l'Italia
e per l'Europa, consapevoli che esse non sono alla vigilia di una rivoluzione
socialista.
L'Europa
5-Crisi dell'Unione
europeaL'Unione europea non è la nostra Europa: noi lottiamo per la prospettiva
di un'Europa progressiva e socialista, dall'Atlantico agli Urali. Sappiamo che
si tratta di un progetto di lungo periodo, e non rinunciamo a lavorare per
ottenere qui ed ora modifiche concrete ancorché parziali nell'attuale
configurazione europea.
Per i limiti di fondo
della costruzione europea e dell’eurozona, la crisi colpisce più profondamente
l’Ue, dove - oltre alle tradizionali contraddizioni di classe - si manifesta
anche una contraddizione tra Stati e nazioni: il blocco tedesco (Germania,
Finlandia, Olanda) impone i suoi diktat ai paesi del sud, meno “virtuosi”, con
politiche di austerità che hanno immiserito e spogliato Grecia, Portogallo,
Spagna, Irlanda, Italia, Cipro (dove si è attuata una espropriazione diretta
con l’imposta del 40% sui depositi bancari superiori ai 100.000 euro, che sta inducendo
i comunisti e la sinistra cipriota a porre il problema dell'uscita dall'euro).
Siamo in una fase
storica di declino del mondo occidentale e di superamento della sua egemonia su
scala mondiale: dell'Europa in modo particolare. Anche questo è all’origine del
peggioramento delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici nelle aree
centrali del sistema, e del crearsi di una gerarchia al loro interno, per cui i
paesi più sfavoriti sono quelli più deboli, costretti ad attuare ricette simili
a quelle “di aggiustamento strutturale” che nei decenni passati rovinarono
interi paesi del Sud del mondo.
Contrastiamo le tesi
prevalenti nell'establishment italiano (Monti, Letta, Bonino, Napolitano...)
secondo cui si esce dalla crisi “rafforzando l'unità politica ed economica” di
questa Unione europea, in senso federale, fino a prevedere un presidenzialismo
continentale in cui il presidente della Ue verrebbe eletto direttamente e
congiuntamente dall'elettorato dei paesi dell'Ue, scavalcando la sovranità dei
Parlamenti nazionali.
L'Europa più forte che
vogliono è l'Europa degli accordi tra i poteri forti delle oligarchie che hanno
impedito il referendum in Grecia e le elezioni anticipate in Italia .
E' l'Europa che impone
alla Bce di non salvare gli Stati, ma le consente di salvare le banche (mentre
Draghi dichiara che l'Ue non può più permettersi uno Stato sociale..).
E' l'Europa che chiama
'unione fiscale' la sorveglianza sulle politiche di bilancio, impone di mettere
il pareggio di bilancio in Costituzione e scarica sacrifici durissimi sulle
spalle dei popoli.
E' l'Europa che ha
distrutto l'economia della Grecia con manovre antipopolari di austerità e
continua ad applicare a tutti i Paesi in difficoltà la stessa ricetta iniqua.
Nel contesto degli
attuali rapporti di forza e di classe in questa parte del mondo, nel contesto
cioè di questa Ue , dominata dal grande capitale multinazionale e dalle
oligarchie finanziarie, subalterna alla NATO e all'egemonia dei nuclei
dominanti dell'imperialismo - ora in concertazione, ora in competizione con gli
Stati Uniti, ma nella stessa logica di classe – rafforzare l'unità politica ed
economica di questa Unione Europea significa rafforzare il nostro avversario di
classe e i principali responsabili della politica di guerra verso altri popoli
(Libia, Siria) e di massacro sociale che il nostro popolo e il nostro Paese
stanno subendo.
6-Per una cooperazione
internazionale e pan-europea tra Stati sovraniSiamo per una cooperazione
pan-europea tra Stati sovrani. Per la difesa della sovranità di un'Italia non
liberista che sappia affermare un ruolo forte e progressivo dello Stato
nell'economia, nello spirito e nella lettera della nostra Costituzione.
Non è vero che i
parlamenti nazionali non contano più nulla, e che le borghesie nazionali dei
singoli paesi europei “subiscono” impotenti i diktat di Bruxelles. Pesano
sicuramente in modo rilevante le pressioni della Bce, del FMI e delle agenzie
di rating, che rispondono a grandi poteri finanziari internazionali. Ma ciò
viene spesso usato come alibi dai poteri forti nazionali per imporre politiche
di rigore a senso unico (mentre per gli armamenti come gli F35 o per il
salvataggio delle banche i fondi si trovano sempre). E dalle borghesie dei
Paesi più forti per imporre politiche inique alle nazioni più deboli.
Nella piccola Cipro la
maggioranza del Parlamento, sorretta dalla mobilitazione popolare, ha
contrastato e corretto alcune misure indicate dall'Ue. Per non parlare
dell'esperienza della piccola Islanda – che non a caso viene tenuta nascosta dai
media - dove una linea affine a quella Ue è stata respinta in blocco da un
referendum popolare e le banche indebitate a causa della speculazione sono
state nazionalizzate.
Non pensiamo con ciò ad
alcun ripiegamento autarchico (che sarebbe fuori dalla storia nell'epoca della
globalizzazione). Pensiamo invece ad una logica di cooperazione economica,
politica e valutaria per la creazione di un’area che comprenda tutte le forze che
nella regione pan-europea (a cominciare dai paesi PIGS) e mediterranea (dentro
e fuori la Ue) operano con una logica di cooperazione alternativa a quella
euro-atlantica, aperta alla collaborazione coi BRICS (Brasile, Russia, India,
Cina, Sudafrica).
Solo su questa base,
agendo quindi sui rapporti di forza interni e internazionali, con la
possibilità di avere propri rapporti economici, commerciali e valutari
all’interno di quest’area, si potrà dare concretezza alla prospettiva di
un’uscita dall’euro in chiave progressiva.
Diverse forze comuniste
e antiliberiste in Europa ritengono ormai arretrato l’obiettivo della
ricontrattazione dei trattati europei, proponendo tout court la fuoriuscita
dall’euro e la rottura della Ue. Questo esito potrebbe determinarsi anche
indipendentemente dall’azione delle forze antiliberiste, come implosione della
Ue e dell’euro (prevista da molti economisti), oppure su pressione delle
frazioni più oltranziste del capitale tedesco. Non intendiamo sottrarci a
questa riflessione o negarne la piena legittimità, ma riteniamo che porre oggi
immediatamente l’obiettivo della fuoriuscita dall’euro, senza nel contempo
indicare un'alleanza internazionale con Stati sovrani o unità regionali con cui
stringere accordi sul piano economico e geo-politico, con gli attuali rapporti
di forza interni e internazionali, non incontrerebbe una sponda internazionale
adeguata.
Nell'Unione europea,
operiamo - con tutte le forze disponibili - per contrastare le ipotesi in atto
(fiscal compact, patto di stabilità) che, abbandonando ogni logica di coesione
sociale e solidarietà tra aree forti e aree deboli, accentuano diseguaglianze
sociali e asimmetrie macroeconomiche, a favore di un direttorio di poteri forti
imperniato sulla Germania. Questa logica vanifica ogni partecipazione
democratica dei popoli alla costruzione europea, ridimensiona ulteriormente la
sovranità nazionale dei paesi più deboli, e pretende di introdurre per legge -
con misure punitive per i trasgressori - misure coercitive e antipopolari non soltanto
di mantenimento ad ogni costo del pareggio di bilancio, ma di riduzione del
debito pubblico già in essere, che avrebbero come conseguenza la distruzione di
cioè che rimane di ogni parvenza di Stato sociale e di sviluppo.
7-Coordinare le lotte e
le proposte alternative a livello europeoValutiamo con obbiettività e senza
pregiudizio le gravi responsabilità della socialdemocrazia europea (e del Pd)
nella costruzione di questa Unione europea e del suo approdo attuale, che
trovano conferma nella subalternità della politica di Hollande ai tradizionali
assi portanti dell'asse franco-tedesco e ad una politica estera allineata alla
Nato.
Valutiamo negativamente
la scelta di Sel di aderire al Pse proprio nel momento in cui esso rivela la
sua subalternità ad una linea neo-liberale ed euro-atlantica, e si propone di
andare oltre la stessa Internazionale socialista, con una prospettiva alla Tony
Blair, che inglobi anche il Partito democratico. Nella socialdemocrazia europea
è in atto da tempo un processo di distacco crescente da alcune istanze
progressive che pure in passato furono patrimonio della socialdemocrazia
“classica” e che contribuirono alla costruzione dello Stato sociale. Oggi
quelle idee sono fatte proprie da un filone di pensiero neo-laburista che si ritrova
in alcune componenti della Sinistra europea, come la Linke in Germania, o le
posizioni di Mélenchon in Francia, o di alcuni settori di Syriza in Grecia.
Lavoriamo per la
costruzione di un fronte di lotta continentale dei comunisti e delle forze progressiste,
sindacali e politiche, con proposte concrete alternative e unificanti:
-rinegoziazione del
debito pubblico, superamento del fiscal compact e del patto di stabilità;
-piano di investimenti
pubblici nelle aree a più forte disoccupazione, finanziato con una fiscalità
progressiva e con una riduzione delle spese militari;
-fissazione di standard
minimi contrattuali;
-garanzie di standard
minimi in termini di reddito garantito e di accesso allo Stato sociale;
-forme di controllo dei
flussi di capitale e strumenti per il contrasto della speculazione finanziaria.
Questi obiettivi vanno
perseguiti collegando il problema delle risorse alla lotta contro la guerra,
introducendo nelle piattaforme rivendicative la riduzione del debito pubblico a
partire dalle spese militari. Per rilanciare un movimento contro la guerra che
oggi è in grave crisi in Europa, e può rinascere solo se si determina un
intreccio tra lotta contro la guerra e lotte sulle questioni sociali più
sentite.
In questa azione di
coordinamento può e deve svolgere un ruolo di supporto non solo istituzionale
il Gue-Ngl, il gruppo parlamentare europeo che riunisce i comunisti ed altre
forze progressiste, non tutte facenti parte del partito della Sinistra Europea
(SE). Per poter fare ciò il Gue deve recuperare appieno le sue originarie
fondamenta confederali, in cui tutte le forze operano con pari dignità e
sovranità (e non come se il Gue fosse oggi una sorta di proiezione
istituzionale del partito della Sinistra Europea); e collegarsi a tutte le
forze progressiste europee, dentro e fuori la Ue, ivi comprese quelle che, come
noi, non hanno una rappresentanza istituzionale.
L'Italia: crisi
economico-sociale e centralità del lavoro
8-La crisi economica
italianaL’Italia sta pagando un prezzo pesantissimo: alle sue debolezze
strutturali (determinate e accentuate dalle politiche di smantellamento
dell’economia pubblica e della grande impresa pubblica attuate nell’ultimo
ventennio) si è aggiunta la devastante politica di tagli e austerità del
governo Monti, che ha prodotto una pesantissima recessione, con fallimenti a
catena di decine di migliaia di imprese e un aumento vertiginoso della
disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile.
La situazione economica
del nostro Paese è drammatica, e non accenna a migliorare.
A più di 5 anni di
distanza dall'inizio della peggiore crisi del capitalismo dai tempi della
Grande Crisi del 1929, siamo tra i Paesi che hanno perso più ricchezza,
distrutto occupazione e capacità produttiva.
La perdita di prodotto
reale rispetto al 2007 raggiungerà a fine 2013 i 121 miliardi di euro (-8,1%);
neppure nel 2017, cioè dopo 10 anni, sarà possibile tornare ai livelli
pre-crisi.
Dopo la crisi del 1929
ne erano bastati sei (per avere altri termini di confronto, basterà ricordare
che 6 anni dopo la recessione del 1975 il pil era cresciuto di 20 punti
percentuali, e 6 anni dopo quella del 1992 era cresciuto di 10 punti).
Dal 2009 in avanti le
contrazioni delle esportazioni e degli investimenti ammontano, rispettivamente,
a -24,6% e -16,5%.
Ad esse si è aggiunta,
dal 2011, la flessione dei consumi delle famiglie: ad oggi -6,1% (la
contrazione massima mai sperimentata in un periodo così breve) e ancora in
peggioramento.
Un ultimo triste record
è rappresentato dal tasso di disoccupazione: nel 2012 è salito al 10,6%, con un
incremento di 2,3 punti percentuali in un solo anno, il massimo mai registrato
nell'intera storia repubblicana (con punte del 70% al Sud tra i giovani). Anche
in questo caso, la situazione non evidenzia alcun miglioramento.
Se le linee di tendenza
attuali non saranno invertite, avremo:
- dopo un marcato calo
del prodotto interno lordo anche nel 2013 (ormai certo), altri anni di
stagnazione;
- una permanente
distruzione di capacità produttiva;
- un significativo
innalzamento del tasso strutturale di disoccupazione;
- uno spiazzamento
competitivo, e una regressione nella divisione internazionale del lavoro, forse
destinati a durare per generazioni.
Se le politiche poste
in atto dal governo Berlusconi-Tremonti prima, dal governo Monti poi, hanno
contribuito attivamente a far sì che gli effetti della crisi attuale sul nostro
Paese fossero peggiori di quelli della crisi del 1929, la sostanziale continuità
del governo attuale rispetto ai predecessori non fa presumere alcun
miglioramento.
Lo stesso
alleggerimento della pressione sui titoli di Stato italiani degli ultimi mesi,
se per un verso costituisce la migliore dimostrazione dell'irrilevanza
dell'"incertezza politica" di breve periodo ai fini delle decisioni
di investimento sui mercati del debito pubblico (e quindi conferma che si
sarebbe potuto e dovuto andare a elezioni anticipate nel novembre 2011 - nel
momento di massima debolezza di Berlusconi - anziché installare il governo
Monti che gli ha ridato fiato), d'altro lato non significa affatto che i
problemi che riguardano il debito pubblico italiano siano alle nostre spalle.
Semplicemente, in
questo momento il minor costo del rifinanziamento del nostro debito pubblico
nasce dalla maggiore fiducia dei mercati nella sopravvivenza dell'euro. Non
appena tale fiducia tornerà ad essere intaccata, dalla crisi di un Paese membro
(ad es. la Slovenia o la Spagna) o dal riprendere di spinte centrifughe (ad es.
in occasione delle elezioni politiche di settembre in Germania), l'attacco al
debito pubblico italiano riprenderà. Anche perché esso a fine 2013 raggiungerà
la soglia del 131% del pil, e l'approssimarsi dell'entrata in vigore del
vincolo di riduzione annua dello stock di debito (nella misura del 5% della
quota eccedente il 60% del pil a partire dal 2015) renderà chiara
l'insostenibilità della situazione del nostro Paese e la concreta impossibilità
di rispettare i patti europei sottoscritti dal governo Berlusconi e poi dal
governo Monti.
La gravità della
situazione italiana impone un radicale cambiamento di rotta su 3 fronti
principali:
-abbandonare le
politiche di austerity distruttive e controproducenti adottate sinora;
-rinegoziare presenza e
ruolo dell'Italia nel processo di integrazione europea;
-affrontare i nodi
strutturali della crisi economica italiana.
Questo programma è
diametralmente opposto alle politiche seguite dagli ultimi governi e proseguite
da quello attuale e richiede:
- abbandono delle politiche
di austerity rilanciando gli investimenti pubblici in cultura, formazione,
ricerca (di base e applicata) e in interventi infrastrutturali e di messa in
sicurezza del territori;
- intervento attivo
dello Stato nelle crisi industriali, avvalendosi dei poteri previsti dagli
artt. 41, 42 e 43
della Costituzione:
riteniamo che vada riproposta la questione dell’intervento pubblico nei settori
strategici dell’economia così come la valutazione da parte dello Stato di
acquisizione di quote societarie delle aziende o della banche che vengono
salvate con risorse pubbliche;
-interventi a sostegno
del reddito dei lavoratori e delle lavoratrici licenziati;
-ripristino dell'equità
fiscale attraverso il recupero dell'evasione e la modifica delle aliquote IRPEF
(diminuendo le imposte pagate dai redditi più bassi e aumentando numero di
aliquote e entità del prelievo sui redditi più elevati);
-imposta patrimoniale;
-ricostruzione di un
polo creditizio pubblico che interrompa la restrizione del credito in atto,
fornisca credito a medio-lungo termine alle imprese a condizioni competitive e
restituisca al credito la funzione di leva della politica industriale;
-riordino delle
politiche pubbliche di incentivazione alle imprese favorendo le imprese che
investono e assumono in via permanente (rendendo viceversa reversibili gli
incentivi concessi alle imprese che delocalizzano la produzione: sono infatti
gli insufficienti investimenti delle imprese, e non il costo del lavoro, il
fattore che frena la competitività delle imprese italiane);
-taglio delle spese
militari, a cominciare dalla cancellazione dell’acquisto dei cacciabombardieri
F-35 e dal ritiro del contingente militare italiano dall’Afghanistan e da altri
teatri di guerra.
Occorre una
programmazione-pianificazione degli investimenti strategici. Essi possono fare
da volano al rilancio delle piccole e medie imprese private che costituiscono
ormai il tessuto produttivo principale dell’Italia. Attraverso l’intervento
pubblico va riorganizzato e riqualificato tutto il sistema delle PMI,
investendo in ricerca e sviluppo, innovazioni tecnologiche: spostandole dal
plusvalore assoluto, basato sul supersfruttamento della forza-lavoro, al
plusvalore relativo.
È importante
sottolineare che su tutto questo è possibile una convergenza anche con alcune
componenti del mondo imprenditoriale italiano, in cui è sempre più chiara la
contrapposizione di interessi tra la componente più esposta alla concorrenza
internazionale e quella parassitaria, legata alla rendita (di oligopolio,
fondiaria, dipendente da prebende pubbliche e dall’evasione fiscale).
Ma tutto questo va
inquadrato in un ripensamento delle politiche italiane nel contesto europeo,
sinora succubi delle politiche dettate dalla Germania. Queste politiche, tese a
far pagare ai paesi periferici dell’Unione i costi del riequilibrio tra i paesi
europei, hanno avuto l’effetto di peggiorarne la situazione economica, e di
localizzare in essi la distruzione di capacità produttiva imposta dalla crisi.
Per di più aggravando gli squilibri europei.
Ed anche su questo è
oggi possibile costruire una convergenza con alcune componenti del mondo
imprenditoriale, che vive con crescente preoccupazione lo spostamento dei
rapporti di forza a favore del grande capitale tedesco, favorito dalle
politiche Ue.
Tutto ciò significa una
cosa molto semplice: rompere con l’Europa liberista che è stata costruita dagli
anni Ottanta in poi.
9-Aggravamento della
questione meridionale e delle spinte anti-meridionaliste al NordMentre al Nord
il progetto delle macro-regioni, nonostante la crisi politica della Lega,
rappresenta una costante minaccia all'unità e alla sovranità nazionale, si
aggrava in modo drammatico la condizione sociale del Mezzogiorno.
La condizione materiale
dei giovani, delle ragazze del Sud è ormai segnata da una disperazione senza
fine. Nel Sud la disoccupazione totale è raddoppiata negli ultimi anni e tocca
il 17,9%, mentre tra i giovani raggiunge il 70 %, il doppio della media
nazionale che si attesta al 35,3 % . Dietro questi numeri asettici ci sono milioni
di persone, particolarmente ragazze e ragazzi, che non hanno né speranza né
futuro.
Tutti gli indicatori
economici, sociali, civili e culturali denunciano l’aggravamento della
situazione del Mezzogiorno. Reddito, occupazione e Pil sono in caduta libera anche
per effetto della crisi che colpisce più pesantemente i ceti sociali ed i
territori più deboli. Ma anche la qualità dei servizi (scuola, sanità,
trasporti, ecc.), i diritti di cittadinanza e le condizioni di vita sono assai
peggiorati.
La piovra della
criminalità organizzata, nelle sue diverse forme ed articolazioni, e nonostante
i pesanti colpi ricevuti, è diventata sempre più potente e prepotente e
controlla economie e territori estendendo i suoi tentacoli a tutto il Paese
Va interrotto il
drammatico fenomeno dell’emigrazione giovanile e della “fuga dei cervelli”,
assumendo misure e provvedimenti capaci di incentivare e promuovere nuove forme
di lavoro e di occupazione nel Sud per valorizzarne le straordinarie risorse,
affinchè i giovani e le ragazze possano crescere, formarsi, studiare, nelle
scuole e nelle università del Sud e in seguito avere la possibilità concreta di
incontrarsi con un’opportunità occupazionale, la cui assenza va comunque
sostenuta anche con il diritto ad un reddito minimo di cittadinanza.
Il futuro del Sud è
legato ai suoi giovani: se questi vanno via, fra 20 anni avremo un Sud
invecchiato e degradato, a cui è stata sottratta qualsiasi speranza di futuro.
Ciò significa fare
finalmente i conti con i mali vecchi e nuovi del Sud: arretratezza e ritardo di
sviluppo, deficit infrastrutturale, disoccupazione dilagante ed emigrazione
intellettuale, povertà diffusa, sistema produttivo asfittico, sistema bancario e
creditizio ai limiti dell’usura, pubblica amministrazione inefficiente e
burocratica, insediamento di impianti ad alto tasso di inquinamento, luogo di
deposito di rifiuti tossici e nocivi, peso crescente delle mafie e della
criminalità organizzata.
Occorre promuovere un
grande piano di investimenti pubblici verso il Mezzogiorno, rilanciando
l'intervento pubblico nell'economia, aumentando la presenza e l’impegno
finanziario dello Stato. Spostiamo in questa direzione i soldi del Ponte sullo
stretto, del rigassificatore di Gioia Tauro, della centrale a carbone di Saline
Joniche e di tutti gli altri impianti e stabilimenti devastanti ed inquinanti
che si vogliono realizzare nel Sud facendone la pattumiera d'Italia.
Ciò significa che oggi
è più che mai necessario il rilancio della battaglia meridionalista che è
insieme lotta per il lavoro, per la legalità e contro le mafie.
Il Sud è una grande
comunità di 20 milioni di cittadini che paga i prezzi di antiche ingiustizie e
di moderne diseguaglianze, ma che può essere una ricchezza straordinaria per il
futuro se si batte l’idea che esso serve solo come grande area di consumo dei
prodotti del Nord.
Non c’è futuro per
l’Italia se non c’è un’attenzione nuova, una politica nuova verso il
Mezzogiorno.
Senza di che il Paese
declinerà ancora di più e quella che già nei fatti è una divisione reale
potrebbe trasformarsi in una separazione istituzionale.
Il Mezzogiorno va
considerato non come una sorta di palla di piombo al piede dell’Italia evoluta
e sviluppata. Il Sud può diventare un motore per tutta l’Italia, e non si potrà
parlare di crescita per l’Italia se non c’è occupazione e lavoro nel Sud.
10-La disoccupazione in
Italia: declino di una nazione interaIn
Italia nel 2012 i licenziamenti sono 1.027.462 con un incremento del 13,9%
rispetto al 2011. A fine 2012 i disoccupati sono 2.744.000. Gli “scoraggiati”
(quelli che non cercano più lavoro) 2.975.000. I senza lavoro circa 5.700.000,
i sotto-occupati 605.000 (451.00 nel 2011 e 364.000 nel 2007).
A gennaio 2013 la
disoccupazione arriva all’11,7% (+0,4% rispetto a dicembre 2012). A marzo le
ore di cassa integrazione sono 96.973.927 (+22,4% rispetto a febbraio). Nei
primi tre mesi del 2013, 97.213.845 di ordinaria (+31,68% rispetto allo stesso
periodo del 2012), 124.069.365 di straordinaria (+53,36% rispetto allo stesso
periodo del 2012), 43.760.435 in deroga (-46,62% rispetto allo stesso periodo
del 2012), per un monte ore complessivo di 265.043.645 (+11,98% rispetto allo
stesso periodo del 2012). I lavoratori in cassa integrazione a zero ore sono
stimati in 520.000. Il taglio di reddito è di 1 miliardo di euro circa (pari a
oltre 1.900 euro pro capite).
La produzione
industriale a febbraio 2013 scende dello 0,8% rispetto a gennaio e del 3,8%
nell’arco di un anno.
È il declino di una
nazione intera.
11-Il modello
fordistaLa vittoria della destra, sociale e politica, prima retta dall’asse
Confindustria-Pdl e oggi aggiornata nella versione tecnica (governo Monti) e
poi politica (governo Pd-Pdl- Scelta Civica), va inserita in un’analisi delle
trasformazioni sociali che hanno attraversato il mondo capitalistico alla fine
del secolo passato e negli anni ottanta e novanta della storia italiana.
La crisi del modello
fordista ha cambiato l’ispirazione di fondo delle politiche economiche e
sociali. Nel fordismo l’aggregazione sociale era formata dalla concentrazione
di lavoratori (il lavoratore “massa”) in un unico luogo di lavoro, la grande
impresa. Lì si definivano le relazioni sociali e si creava un’appartenenza al
soggetto collettivo. Si interagiva col territorio, si costruiva aggregazione,
solidarietà classista ed interclassista, uguaglianza delle condizioni e dei
diritti. Non a caso in Italia è nel secondo dopoguerra che il movimento dei
lavoratori e il movimento delle donne ripensano e ridisegnano lo Stato sociale,
il welfare, togliendolo dalle logiche della beneficienza e dal mutualismo,
nonché da dalla “assistenza” di marca fascista, autoritaria e paternalistica al
tempo stesso. Si disegnava fin quasi a propria immagine l'insieme della
società, unificando e mediando gli interessi particolari sulla base di un
interesse generale. Mai le lotte dei lavoratori avevano promosso un avanzamento
tanto profondo ed esteso. Era la classe operaia intesa come classe generale che
voleva cambiare il mondo.
12-La ristrutturazione
capitalisticaLa ristrutturazione capitalistica rompe la capacità di controllo
sociale costruita in decenni di lotte,
frantuma la composizione di classe, cancella diritti universali restituendoli
alla diseguaglianza del mercato. Verso la fine degli anni 70-inizio 80 inizia
un vorticoso peggioramento. Sono di quel periodo le prime “delocalizzazioni”:
le imprese spostano la produzione in quei Paesi dove salari, diritti e tutele
ambientali sono minimi. Molte fabbriche vanno in crisi. Il ridimensionamento
occupazionale è veloce e continuo. Cassa integrazione e prepensionamento
diventano la condizione di migliaia e migliaia di lavoratori.
La sconfitta del
movimento operaio determina una situazione di egemonia del “pensiero capitalistico”,
un "pensiero unico" che cancella la contraddizione di classe e, in
nome di un interesse comune, esige la rimozione autoritaria delle lotte,
considerate un disturbo irrazionale e corporativo rispetto al regolare
funzionamento del sistema.
Il progresso prescinde
dallo sviluppo sociale, anzi esige un suo arretramento congiunturale
sacrificando bisogni popolari, servizi sociali, tutele del lavoro. In una
società pervasa dalla precarietà e dal rischio, il legame sociale rischia di
rompersi. La rappresentanza è resa più difficile dalla crisi delle vecchie
appartenenze e dalla frammentazione della società: moltiplicazione dei
soggetti, delle posizioni lavorative, delle figure professionali, imponenti
fenomeni migratori che determinano mutamenti demografici ed una crescente
etnicizzazione del mondo del lavoro.
L’introduzione del
contratto di lavoro individuale, le 46 forme di contratti precari, le deroghe
ai contratti e alle leggi, rendono il lavoratore subalterno all’impresa e
ridisegnano le relazioni sociali, cancellando la rappresentanza collettiva.
Arretrano tutti i diritti, a partire da quelli delle donne per le quali torna
ad essere messo in discussione il desiderio stesso di lavorare: il part time
non è più una scelta personale ma un’imposizione dell’azienda; la maternità un
ostacolo per la “produttività”. Le leggi a tutela delle donne, della famiglia,
dei bambini si fermano sulla soglia dell’impresa. Un fenomeno che presto si
estenderà anche ad altri diritti, come la salute di lavoratori e lavoratrici, rimessa
a rischio impunemente, come la crescita ininterrotta delle morti sul lavoro. Si
comincia a capire che ciò che si toglie
prima alle donne e ai lavoratori più giovani o più fragili (immigrati,
disabili, malati) prima o poi colpirà anche i diritti ritenuti acquisiti una
volta per sempre.
Le forze del movimento
operaio ne escono cambiate e sfibrate e, di conseguenza, mutano i rapporti di
forza nel Paese. Nei partiti della sinistra e democratici subentra una presa di
distanza dalle condizioni dei lavoratori. Il loro benessere e i loro diritti
assumono un ruolo marginale, divenendo sempre meno gli obiettivi centrali e
prioritari del progetto di società. Viene ipotizzata la chiusura di un’epoca e
con essa decretata la fine della classe operaia; sono considerati superati i
concetti di lotta di classe e di coscienza di classe. Gli stessi partiti di
massa si trasformano in partiti leggeri, in pratica di opinione, con un sempre
minore radicamento nel territorio e nei luoghi di lavoro. Il modello
capitalistico viene assunto a dogma. Si ha la passiva accettazione di una
sconfitta ritenuta inevitabile.
13-Il lavoro oggi1.La
più grande emergenza è la mancanza di lavoro, l’enorme disoccupazione
(soprattutto giovanile e femminile, nel sud ma anche nelle aree un tempo
considerate a occupazione piena)
2.L’assenza di una
politica di sviluppo che individui i settori strategici, la produzione
necessaria e utile, il ruolo dello Stato.
3.La vittoria del
modello Marchionne, una prepotente organizzazione del lavoro assurge a legge
grazie alla compiacenza dello Stato e alla presenza di sindacati
accondiscendenti. Un arbitrio che si aggiunge all’illegalità diffusa (evasione
ed elusione fiscale, corruzione, cancellazione di diritti, poca o nessuna
garanzia di sicurezza, lavoro nero...). La risposta dei governi liberisti è
l’attacco alla libertà sindacale, l’espulsione dai luoghi di lavoro dei
sindacati di classe, gli accordi separati con i sindacati accondiscendenti,
l’assenza di una legge che permetta alle lavoratrici ed ai lavoratori di votare
con il referendum gli accordi sottoscritti e di scegliere liberamente i propri
rappresentanti.
Il risultato è che il
Paese (carente di materie prime e con un sistema industriale poco innovativo,
obsoleto e privatizzato) non ha più strumenti né forza contrattuale per
trattare e competere con altre nazioni sviluppate. Da quinto Paese industriale,
si trasforma in una “società di servizi” e neppure di alta qualità. L’Italia
diventa una “terra di conquista” nella quale i rapporti di forza non esistono o
sono comunque e sempre a favore del capitale.
14-Riunificare la
classe lavoratriceL’obiettivo dei comunisti è riunificare la classe
lavoratrice, sapendo che occorre una ridefinizione ampia del lavoro
subordinato, comprendendovi una molteplicità di figure lontane dalle forme
usuali del passato.
I cosiddetti “nuovi
lavori” rientrano del tutto nella categoria del lavoro salariato, non sono
identità intermedie tra lavoro salariato e lavoro autonomo. Solo che la
coesione sociale non avviene più automaticamente, indotta dallo sviluppo
economico o da soggetti sociali forti. Per questo è centrale un progetto
generale di ricomposizione del mondo del lavoro, capace di imporsi nella scena
politica.
In questo contesto si pone con forza l’esigenza
di rivedere l’assetto dei contratti nazionali a partire da una loro
significativa riduzione, al fine di riunificare quello che il capitale ha
frantumato, prefigurando tre grandi assetti contrattuali (industria,
commercio-servizi e pubblico impiego), capaci di ridare centralità ai vari
CCNL.
Inoltre alla luce della
diffusione di lavori “atipici” e non contrattualizzati, seguiti da retribuzioni
da fame, si rende necessaria una riflessione e ridefinizione del rapporto tra
contrattazione ed intervento legislativo. Va promosso un intervento legislativo
non alternativo ma complementare e a sostegno della contrattazione.
15-Sinistra politica e
sindacatoNel progetto di ricomposizione della classe lavoratrice, va analizzata
la crisi della sinistra politica, comunista e non, e il logoramento di quella
sindacale, identificabile principalmente con la Cgil.
Nell’occidente
capitalistico, coinvolto nel processo di industrializzazione, il movimento
operaio si è fatto carico negli anni dell’emancipazione dei lavoratori. Li ha
trasformati da sudditi di uno Stato oligarchico e monoclasse a cittadini di uno
Stato democratico pluriclasse.
Tuttavia, pur avendo un
passato di cui vantarsi, è al loro futuro e al futuro dei lavoratori che il
movimento operaio e in particolare i comunisti devono pensare, ponendosi alcune
domande. Quali scelte politiche? Quali gli avversari ed i loro obiettivi? Quali
i nostri obiettivi? Quale lo stato del movimento, le sue risorse attuali e
potenziali e le condizioni per utilizzarle? Quali le forze (sindacali,
politiche, sociali) con cui avere una relazione forte per realizzare gli
obiettivi? Quali le condizioni minime per un'alleanza?
Questi interrogativi ci
fanno guardare alla Cgil come ad un nostro riferimento essenziale sul piano
della rappresentanza sociale; ed a considerare con attenzione il sindacalismo
di base, ritenendolo un interlocutore di cui tenere conto.
La Cgil è il più grande
sindacato italiano ed ha rappresentato negli anni un baluardo di tenuta e di
democrazia. Ma l'atteggiamento assunto dal gruppo dirigente di fronte alle
leggi del governo Monti -dove la maggioranza di sostegno al governo era del
tutto simile a quella dell’attuale governo Letta -è stato quantomeno
inadeguato..
Sulla controriforma del
mercato del lavoro non si è ricorsi alla mobilitazione necessaria per evitare
che il ruolo sindacale si limitasse a risultati emendativi insufficienti. Sulla
contro-riforma delle pensioni solo qualche ora di sciopero e sugli artt. 8 e 18
solo qualche protesta formale, senza il sostegno (se si esclude la Fiom e la
sinistra della CGIL che facevano parte del Comitato Promotore referendario)
alla raccolta di firme per i Referendum. Spetta ai comunisti porsi la questione
di una rappresentanza politica del mondo del lavoro di cui loro, per primi,
devono essere intelligenti e coerenti artefici. Evitando di ridurre
l’iniziativa sul terreno sterile della “propaganda politica”, cui sia la
sinistra moderata che quella cosiddetta radicale sono spesso ricorse. Il nodo è
rinsaldare il rapporto con i lavoratori, messo a dura prova nel corso di questi
anni a fronte anche della nutrita serie di accordi separati e di una perdurante
mancanza di risultati concreti. Senza risultati rischia di determinarsi – e in
parte già accade - un progressivo scivolamento verso la non-partecipazione alle
lotte ed una sorta di “consenso passivo” alla politica delle classi dominanti.
La Cgil vanta quasi 6
milioni di iscritti. E’ al terzo posto in Europa, dietro i tedeschi della Dgb
(poco meno di otto milioni) e i britannici del Tuc (sei milioni e mezzo circa).
E’ pur tuttavia largamente la prima a fronte di un reale pluralismo sindacale.
La battaglia per un
nuovo protagonismo “di classe” e per la riaffermazione di un partito comunista,
la capacità di ridare rappresentanza politica al mondo del lavoro salariato,
non prescindono dal futuro e dalle prospettive di questo grande sindacato di
massa. Il nostro posto resta assieme al popolo della Cgil. La Fiom ha meriti e
potenzialità indubbi in quest'opera di ricostruzione del sindacato di classe,
come pure la Sinistra sindacale interna alla Cgil, organizzata e diffusa nelle
varie categorie.
Lavorare per la
rinascita della sinistra politica e per un nuovo protagonismo del sindacato
significa anche, per noi comunisti, avanzare una serie di proposte, una
piattaforma attorno alla quale organizzarsi e da cui ripartire.
16-Le nostre proposteOccorre
un grande intervento pubblico in economia che consenta allo Stato di essere
presente in tutti i settori produttivi, in particolare in quelli più avanzati,
con un conseguente ritorno di imprese di grandi dimensioni, imprescindibili per
competere in settori strategici. Un intervento pubblico che metta in moto il
Paese attraverso uno sviluppo compatibile, con investimenti in istruzione e
ricerca, con la qualificazione del lavoro. E che condizioni, anche con la leva
fiscale, l’economia privata verso obiettivi di sostenibilità ambientale.
Lo Stato deve
contrastare le delocalizzazioni facendole “costare”, recuperando i
finanziamenti erogati, vincolando a interesse sociale le aree dismesse,
assumendo il controllo pubblico delle aziende che spostano il lavoro
all’estero.
Non siamo contrari alle
grandi opere. Il nostro Paese, al sud ma non solo, ha per esempio un grande
deficit nelle reti di comunicazione che va colmato. Siamo contrari quando esse
determinano speculazioni politico-economiche e infiltrazioni mafiose, quando
sono devastanti per l’ambiente, i territori e i loro abitanti. Non servono
“cattedrali nel deserto”, peraltro spesso decise senza alcun coinvolgimento
degli abitanti della zona e delle loro rappresentanze istituzionali. Non
servono opere mastodontiche come la Tav o il Ponte sullo Stretto di Messina. Lo
Stato deve promuovere una diffusione di “piccole” opere la cui necessità è
avvertita in Italia e in Europa. C’è da approntare un nuovo piano azionale di
edilizia economica e popolare, c’è da rimettere in sicurezza scuole, ospedali ed istituti carcerari, c’è l’enorme
e drammatico problema del riassetto idrogeologico e della sicurezza sismica, ci
sono da riparare acquedotti ridotti a colabrodo che “sprecano” un bene prezioso
come l’acqua, c’è da investire per una mobilità sostenibile e per i beni
comuni. Una “grande opera”, questa sì, di risanamento e sviluppo dell’intero
territorio nazionale.
Diminuire il costo del
lavoro per retribuzioni più alteNel 2012 il cuneo fiscale è stato oltre il 53%
del costo del lavoro, tra i più elevati nell’area Ocse. La differenza tra
salario lordo e salario netto è scandalosa. Le retribuzioni italiane sono tra
le più basse in Europa, in particolare quelle delle donne, e l’impoverimento
del potere d’acquisto coinvolge tutte le forme di lavoro subordinato, da quelle
intellettuali a quelle operaie.
La tassazione pesa più
sul costo del lavoro che sulle speculazioni finanziarie, provocando un
abbassamento pauroso dei consumi, anche sui beni di prima necessità, e un freno
alle imprese, soprattutto piccole e medie, che vogliano innovare in prodotto e
processo.
Per un recupero del
potere d’acquisto delle retribuzioni chiediamo, come prime e urgenti misure, la
restituzione del fiscal drag e la detassazione della tredicesima.
Previdenza, cancellare
la controriforma ForneroAnche l’importo della stragrande maggioranza delle
pensioni, soprattutto a seguito della controriforma Fornero, è scandaloso. Gli
anziani, in un paese come l’Italia dove cresce la speranza di vita, vivono una
vita di restrizioni e di stenti, spesso impossibilitati a curarsi. E per le
donne la parificazione dell’età pensionabile segna un ulteriore arretramento:
in ossequio ad una norma Ue, cancella il riconoscimento del doppio lavoro
femminile, produttivo e riproduttivo.
Chiediamo la
cancellazione della contro-riforma Fornero; una redditività da pensioni tale da
impedire la condizione di indigenza nella quale, a condizioni date, saranno
costretti tanti lavoratori e lavoratrici; la definizione di un assetto legislativo
in materia previdenziale che, attraverso un diverso, adeguato rapporto tra
anzianità anagrafica ed anzianità contributiva (in grado di tutelare i “lavori
usuranti” e il carico del lavoro produttivo ed improduttivo delle donne)
determini le condizioni per un ricambio generazionale e conseguentemente
rappresenti una forte risposta al dramma della disoccupazione giovanile; la
cancellazione dell’attuale blocco di indicizzazione dei trattamenti
pensionistici; la restituzione del fiscal drag; la detassazione della
tredicesima.
Stato sociale e
universalizzazione dei serviziNegli anni '80 si è fatta strada l'idea che lo
Stato dovesse "ritirarsi" per lasciare spazio all'iniziativa privata.
Ne è derivato un progressivo svuotamento dello Stato sociale, con danni enormi
nelle erogazioni dei servizi. Maggiormente colpite sono le donne, costrette
spesso a scegliere tra lavoro e cura di bambini o anziani. Il Paese è spaccato,
sia dal punto di vista geografico che generazionale che della parità di genere.
In un settore come la salute, la presenza pubblica è l'unica in grado di
assicurare l'universalità nell'erogazione del servizio, non sostituibile con un
generico "buono" da spendere nel privato.
L’impoverimento della
popolazione pretende, come una delle prime misure, il superamento della
compartecipazione alla spesa da parte dell’utenza, a partire dalla
cancellazione dei ticket, soprattutto per i redditi medio-bassi.
L’esito del referendum
di Bologna sulla erogazione di contributi pubblici alle scuole materne private
(per lo più religiose), peraltro proibita dall’art.33 della Costituzione, ci
dice che l’essenzialità di un welfare
universale garantito dal pubblico è ormai convinzione diffusa tra i cittadini.
Redistribuzione del
lavoroConsiderando che la tecnologia permette di produrre di più e più
velocemente, si impone una riflessione sul tema della distribuzione del lavoro.
Diminuzione e rimodulazione dell’orario, blocco dei licenziamenti, contratti di
solidarietà, formazione continua volta alla riqualificazione delle lavoratrici
e dei lavoratori, sono parte fondamentale della vasta questione dell’equità e
della distribuzione della ricchezza.
Mai come in questi anni
è smodatamente aumentata la sperequazione tra ricchi e poveri, nel mondo, nella
stessa Europa, nel nostro Paese e mai come oggi la distanza tra il salario
medio erogato ed il compenso elargito alle figure dirigenziali e
manageriali è stata così marcata.
Il
precariatoCancellazione delle forme di lavoro precario riconducendo a normalità
il lavoro dipendente continuativo. Il precariato è la condizione di ampi
settori della classe operaia del 2000, i
precari sono donne e uomini, molti dei quali immigrati, che svolgono
un’attività che, fino a pochi anni fa, sarebbe stata a tempo indeterminato. Con
il mutare dei rapporti di forza, sono state introdotte leggi e contratti che
consentono alle imprese mano libera, in sostanza maggiore libertà di
sfruttamento.
Il lavoro neroNon è
vero che il lavoro nero è ineliminabile. Il lavoro nero è una vera e propria
economia, parallela a quella ufficiale, generalizzata al sud ma fortemente
presente anche al nord, con una forza lavoro a maggioranza di giovani donne, di
anziani e di immigrati. Nel lavoro nero si producono grandi marchi, speculano
le multinazionali, padroneggiano le organizzazioni criminali. E’ l’area più
grande dell’evasione fiscale, retributiva e contributiva. Contrastarlo non è
dunque solo un’operazione di giustizia, di restituzione di dignità al lavoro
stesso e alle persone che lo effettuano (cosa che basterebbe di per sé a
giustificare un impegno ben più accentuato dello Stato), ma anche un’operazione
di recupero di risorse, essenziali per portare il Paese fuori dalla crisi. Il
lavoro nero può essere individuato, censito e contrastato. Anche adottando le
forme di prevenzione e repressione in uso nella lotta contro le mafie.
Gli articoli 18 e
8Ripristino dell’articolo 18 nello Statuto dei lavoratori e sua estensione a
tutti i lavoratori; cancellazione dell’articolo 8 dell'ultima finanziaria
targata Berlusconi, che permette ogni tipo di deroga alle leggi, ai contratti
nazionali e alle norme che regolano i rapporti di lavoro. Queste richieste,
obiettivo dei referendum da noi organizzati con altre forze della sinistra e
sindacali, sono una tappa fondamentale per riportare la legalità nel lavoro
Legge sulla
rappresentanzaUna legge sulla rappresentanza sindacale che garantisca la
democrazia nei luoghi di lavoro e dia a lavoratrici e lavoratori il diritto ad
eleggere i propri delegati e a decidere con il referendum sugli accordi
(nazionali, aziendali, interconfederali) che li riguardano. Non e' accettabile
un modello che impedisca l'esercizio del diritto dei lavoratori a organizzare
l'opposizione all'applicazione di un'intesa scegliendosi liberamente la propria
rappresentanza.
Reddito di
cittadinanzaChi oggi svolge un lavoro subordinato è povero a causa delle
retribuzioni inadeguate. I suoi figli hanno meno possibilità di ieri di
studiare. Le statistiche parlano di forzati abbandoni scolastici e persino di
diffuso analfabetismo di ritorno. Migliaia e migliaia di precari non hanno
alcuna forma di sostegno in caso di disoccupazione e tra un lavoro e l’altro.
Lavoratori e lavoratrici, anche anziani, affrontano senza risorse lunghi
periodi di inoccupazione non coperti da alcuna forma di sostegno al reddito. Il
reddito di cittadinanza, che non sostituisce le attuali forme di tutela, è uno
strumento, in uso in quasi tutti i paesi europei, per evitare la miseria, per
dare opportunità di studio (e quindi di promozione sociale) a chi non ne ha né
può pesare sulla famiglia. E permetterebbe a tante giovani donne, su cui agisce
la doppia esclusione generazionale e di genere, di investire sul proprio
futuro.
Secondo il Fondo
monetario ed altri istituti internazionali, l’occupazione avrà una ripresa
attorno al 2017. Il rischio, per allora, è l’esaurimento della cassa
integrazione, della disoccupazione e di altre indennità. E’ necessario dunque
un sostegno, sia pure modesto, sia pure inizialmente non universale, che separi
il reddito dall’occupazione, e sostenga i periodi verso la “occupabilità"
delle persone che caratterizzano oggi il lavoro e lo caratterizzeranno ancora
per lungo tempo.
Naturalmente bisogna
fare attenzione al fatto che dobbiamo dare molta attenzione al concetto di
flexecurity, affinchè non diventi una condizione permanente in grado di rendere
più “sopportabile” lo stato di lavoratore precario.
17-Coordinamento delle
comuniste e dei comunisti del sindacatoLa nostra classe di riferimento sono le
donne e gli uomini che lavorano, i giovani che studiano e restano senza
prospettive, i precari, i migranti, tutti coloro che la crisi espelle dal
lavoro, gli sfruttati sottopagati e senza diritti, quei piccoli imprenditori e
"popolo delle partite Iva" simili a quel proletariato che è stato,
storicamente, il "motore" del movimento operaio in Italia.
Per la centralità che
assume per noi il mondo del lavoro, è necessario superare uno scollamento tra
partito e compagni che operano nel sindacato. E’ una falsa “autonomia” che
genera spesso divisioni, incomprensioni, addirittura non conoscenza di ciò che
avviene nei rispettivi campi. Proponiamo per questo forme di coordinamento a
tutti i livelli affinché l’impegno coinvolga tutti e sia coeso e coerente.
Sta anche e soprattutto
qui la costruzione di un partito saldo e radicato contro la logica del partito
leggero o d’opinione. Sta in un impegno politico da praticare assieme ovunque
si sia collocati, tanto più laddove il conflitto capitale-lavoro decide le
prospettive democratiche, economiche e sociali dell’intero Paese.
L'Italia: crisi
politica e istituzionale
18-Crisi democratica e
crisi socialeIl nostro è un giudizio assolutamente negativo e fortemente
preoccupato sugli ultimi sviluppi della situazione politica italiana. La
rielezione di Napolitano alla presidenza della Repubblica e la formazione del
governo Letta-Alfano sono state la prova di forza, vinta a mani basse,
attraverso vari attori della politica e dell'establishement economico
finanziario che da tempo lavorano alla normalizzazione del quadro politico
italiano, per una definitiva soluzione autoritaria ed antipopolare della crisi
economica e della gestione della crisi del debito pubblico.
Il cedimento alla
formula della “ grande coalizione”, che è già stato imposto alla Grecia
all'indomani delle elezioni politiche del 2012, ha stravolto il quadro politico
italiano e ha imposto una torsione, nei fatti, presidenzialista al nostro
sistema politico ed istituzionale, con una logica contraria a quella cui si
ispira la nostra Costituzione.
Il governo Letta-
Alfano segna la vittoria e il ritorno sulla scena politica italiana del
protagonismo di Berlusconi e delle politiche della destra, svelando, nel
sostanziale continuismo con la politica economica del governo Monti, la verità
sulla crisi del novembre 2011, quando Napolitano impedì nei fatti la sconfitta
politica del Cavaliere e del centrodestra, allora del tutto scontata se si
fossero svolte le elezioni anticipate.
La forma scelta dalle
grandi lobby che hanno guidato l'azione di Napolitano negli anni scorsi fino
all'esito politico-parlamentare di quest'anno con il governo di grande
coalizione, cerca dunque di risolvere, con la cancellazione di ogni residua
conflittualità tra ipotesi diverse e di cogestione della crisi, la peculiare
vicenda italiana che unisce oggi alla gravissima crisi economica una crisi
aperta - da quasi vent'anni - e ancora irrisolta sul piano politico e
istituzionale.
19-Un sistema politico
e istituzionale che cambia in una logica opposta alla CostituzioneIl sistema
politico della Prima Repubblica è stato travolto nei primi anni 90,
all'indomani delle vicende che hanno visto la caduta del Muro di Berlino e la
crisi del blocco socialista del 1989, colpito nei suoi pilastri fondamentali,
La Bolognina e
l'inchiesta di Mani pulite hanno affondato i grandi partiti di massa (Pci, Psi,
Dc). La prima grande offensiva avviata negli stessi anni contro uno dei cardini
della Costituzione, il sistema elettorale proporzionale, ha destrutturato
gradualmente un sistema rappresentativo fondato sul ruolo essenziale dei
partiti di massa, quali “nomenclatura delle classi”, e il loro confronto
dialettico in Parlamento, di cui la Costituzione e la legge proporzionale
fondavano la centralità. Parallelamente si è dispiegato l'attacco al ruolo
dello Stato nell'economia previsto dalla Costituzione, con la fine delle PP.SS
e dell'intervento pubblico nel Mezzogiorno e con la privatizzazione dell'intero
sistema bancario.
Sono gli anni in cui si
comincia ad assumere come inevitabile una riscrittura della Carta fondamentale
da parte di una imponente macchina ideologica e propagandistica che solo poche
forze, tra le quali i comunisti in prima fila, cercano di contrastare.
Da vent'anni si lavora
attorno a tale obbiettivo di scardinamento della nostra Costituzione in modo da
rendere formali le modificazioni di fatto intervenute sul sistema politico, per
portare a compimento l'attacco allo Stato sociale e ai diritti delle
lavoratrici e lavoratori.
A ben guardare,
peraltro, il processo involutivo di cui oggi stiamo vivendo una fase ormai
cruciale, è iniziato ben prima dell’“indimenticabile 1989”, e cioè alla metà
degli anni Settanta, allorché i vertici e le “camere di compensazione” del
capitalismo internazionale, dal Gruppo Bilderberg alla Trilateral, cominciarono
a parlare di “eccesso di democrazia”. Il problema che si poneva era appunto
quello di un “surplus” di rappresentanza, di un “sovraccarico” di quelle domande
sociali emerse negli anni precedenti che, per quelli che poi diventeranno gli
artefici della svolta liberista degli anni del reaganismo e del thatcherismo,
potevano determinare una “crisi di governabilità”, per cui era proprio sulla
governabilità che bisognava rimettere l’accento anziché sulla rappresentanza,
la partecipazione e la democrazia.
Da molto tempo dunque i
gruppi dirigenti del sistema capitalistico mondiale si erano posti il problema
dei limiti da porre alla democrazia oltre i quali era necessario fermarsi e
fermare la stessa dialettica politica, sociale ed i suoi strumenti, per evitare
di dover far posto a una forma di organizzazione sociale più avanzata. Parliamo
di una dinamica storica peraltro ricorrente: ci sono sempre voluti conflitti e/o
rivoluzioni per far accettare alle classi dominanti l’idea di parlamenti
rappresentativi e Carte costituzionali; all’indomani della Prima guerra
mondiale e della rivoluzione d'Ottobre cui le classi dirigenti risposero col
fascismo; e così ancora negli anni Settanta, quando di fronte all’espansione
delle lotte sociali e all'avanzata dei partiti espressioni del movimento
operaio, a una democrazia che stava diventando “troppo rappresentativa”, si
decise di porre un freno, avviando una controffensiva sia ideologica che
terroristica.
Va detto peraltro che i
comunisti, almeno in Italia, percepirono allora “in tempo reale” quanto stava
accadendo: è del 6 ottobre 1977 un articolo dell’Unità dal titolo La democrazia
rifiutata, nel quale si sottolineava che la nascita della Trilateral rispondeva
a “un preciso progetto di egemonia politica internazionale di David
Rockefeller, fratello più giovane di Nelson Rockefeller, portavoce riconosciuto
della comunità bancaria mondiale”, e ai fini di una necessaria “limitazione” della
democrazia proponeva tra l’altro “un drastico ridimensionamento dell’educazione
superiore” e una sua “subordinazione alle dimensioni del mercato del lavoro”,
oltre a una decisa “limitazione della libertà di stampa”.
Il “piano di rinascita
democratica” della P2 è stato dunque solo la traduzione italiana di un progetto
di ben più ampia portata, che certo trovava nell’Italia l'humus favorevole nei
tanti e mai sopiti rigurgiti dell'anticomunismo e del fascismo nostrano, con le
sue complicità interne agli stessi apparati dello Stato e ai settori del
capitalismo italiano più legati alla rendita e alla speculazione. Non a caso,
l’anno in cui il piano risale è quel 1976 che vide la grande avanzata del Pci
alle elezioni politiche; un’avanzata che aveva impensierito non poco le classi
dominanti italiane e i circoli imperialistici internazionali. Ci interessa qui
sottolineare come parti rilevanti di quel piano sono state poi attuate nel
corso degli ultimi anni, dalla “normalizzazione” del quadro politico (con l’enfasi
sulla “società civile” a svantaggio dei partiti), la già ricordata
demonizzazione del sistema proporzionale, la progressiva accettazione anche da
parte di forze non di destra dei principi presidenzialisti propri della destra
populista e reazionaria, il ridimensionamento del ruolo politico del sindacato,
sempre più ridotto a “collaboratore del fenomeno produttivo”, dall'attacco
all'autonomia della Magistratura fino alla limitazione organizzata alla libertà
di stampa e alla creazione del duopolio Rai- Mediaset. 15
La scelta dei
referendum che introdussero nel nostro Paese sistemi elettorali di tipo
maggioritario e uninominale finiva per chiudere il cerchio. Si apriva così la
strada a quel bipolarismo che avrebbe limitato il confronto politico,
emarginando idee e forze non omologate, e stimolato personalismi e leaderismi,
quel bipolarismo cui oggi, nonostante il suo evidente fallimento e le enormi
storture imposte alla politica italiana, tornano nei loro appelli molti
dirigenti e l'attuale neo-segretario del Pd.
20-Cancellare un intero
modello di societàSe il disegno piduista non si è compiutamente realizzato e
l’Italia è rimasta a metà del guado, e se quel progetto in origine
rappresentava la più coerente risposta reazionaria all'avanzata del Pci, oggi
esso si configura come un dato di riferimento di natura quasi strutturale,
volto alla stabilizzazione del sistema ed a chiudere la partita sociale
apertasi con il 1989.
L'attacco alla
democrazia parlamentare rappresentativa, all'economia pubblica, allo Stato sociale
e all'art.11 della Costituzione, sono facce della stessa medaglia, volte a
cancellare un intero modello di società.
Ma il nuovo sistema
politico e istituzionale non si è mai interamente compiuto e stabilizzato, sia
per le contraddizioni interne ai gruppi dominanti che, per ragioni di
concorrenza interna e di convenienza a breve termine, non hanno trovato
l’accordo sostanziale per il passaggio ad una organica repubblica presidenziale
e al bipolarismo maggioritario; sia per la resistenza che fin qui le forze
democratiche, fedeli alla Costituzione, pur se sempre più deboli e sempre più
divise, hanno saputo mettere in campo: pensiamo alla sconfitta del disegno
presidenzialista di Berlusconi nel referendum del 2006.
Oggi quelle linee di
tenuta democratica si sono ulteriormente indebolite.
A ciò va aggiunto
l’avvelenamento del discorso pubblico e la sua degenerazione anche culturale,
imperniatosi sulla centralità della figura di Silvio Berlusconi, l’opposizione
al quale si è più concentrata sull’impresentabilità del cavaliere, sulla sua
corruzione morale che non su proposte realmente alternative sul piano
politico-programmatico. Realizzando così una colossale operazione di
occultamento delle reali opzioni politiche, utile anche a occultare la
fragilità e subalternità programmatiche prima del Pds-Ds, poi, più
marcatamente, del Pd, sui quali ha influito in modo crescente e negativo la
presidenza Napolitano, che ha dato un potente incoraggiamento all'affermarsi di
un presidenzialismo strisciante e allo svuotamento della Costituzione.
21-Evoluzione del
quadro politico negli ultimi due anniL'evoluzione del quadro politico degli
ultimi due anni ha visto la fine del governo Berlusconi, il governo Monti, le
elezioni politiche, la rielezione di Napolitano alla Presidenza della
Repubblica e la conseguente formazione del governo Letta-Alfano-Bonino.
Ognuno di questi
passaggi porta il segno di una fortissima influenza diretta dei poteri forti
del capitalismo nazionale e internazionale nella vita del Paese, per
normalizzarne e stabilizzarne la situazione economica, politica, istituzionale
nelle compatibilità auspicate dai settori più reazionari di Confindustria,
dalla Cei e da settori del Vaticano, dall'Ue, dal blocco euro-atlantico.
Con il governo Monti la
borghesia è scesa in campo direttamente coi suoi tecnocrati ed ha
temporaneamente esautorato i suoi tradizionali rappresentanti politici, di
fronte all'aggravarsi della crisi economica e finanziaria del Paese.
La fine del governo
Berlusconi non è avvenuta sulla base di un voto parlamentare, come pure avrebbe
dovuto essere costituzionalmente, ma per decisione del Presidente della
Repubblica. Il quale, fattosi interprete degli interessi strategici della
grande borghesia italiana ed europea, in piena e concordata sintonia coi poteri
forti nazionali e sovranazionali, ha di fatto esautorato il Parlamento, il
governo uscente e i partiti politici, di centro-destra e di centro-sinistra -
considerati inadeguati a rappresentare in quella fase di grave crisi il disegno
lucido della borghesia - ed ha affidato tale compito ad un ex commissario UE
gradito anche agli Usa.
Si è palesata in modo
spettacolare ed autolesionista l'incapacità (o la non volontà) del gruppo
dirigente del Pd di
tener testa alle pressioni di Napolitano e dei poteri forti, a cui una parte
crescente del Pd è sempre più vincolato in modo organico (e ciò nonostante
Bersani volesse le elezioni anticipate che prefiguravano una vittoria
schiacciante del centro-sinistra e lo sbandamento del Pdl e di Berlusconi).
Le misure economiche e
sociali del governo Monti hanno prodotto una grave depressione dell'economia
del Paese e un autentico massacro sociale, scaricando sui lavoratori dipendenti
e sulla parte più povera del paese, pensionati, donne e giovani – soprattutto
nel Mezzogiorno - i costi della crisi. Mentre in politica estera esso ha
consolidato i legami di fedeltà alla Nato e agli Stati Uniti e si è allineato
alle posizioni aggressive del blocco euro-atlantico e di Israele nei confronti
della guerra non dichiarata contro la Siria.
Le elezioni politiche
del febbraio 2013 hanno visto:
-la grave sconfitta
della lista di Rivoluzione Civile (di cui ci assumiamo, per la parte che ci
compete, tutte le nostre responsabilità) e con essa dei comunisti e delle forze
di sinistra che vi hanno contribuito. Il coraggio straordinario di Antonio
Ingroia che va riconosciuto, apprezzato e ringraziato, non può annullare il
peso della sconfitta. Questa lista - al di là dei limiti intrinseci di
un'operazione elettoralistica dell'ultima ora (dall'identità incerta; a cui
anche noi siamo pervenuti dopo una serie di travagliati mutamenti di posizione,
dopo il rifiuto del Pd e di Sel ad un accordo elettorale che davamo
erroneamente per scontato) - è rimasta schiacciata tra i due maggiori
schieramenti in cui si è riversato il grosso dell'elettorato progressista e di
sinistra.
Da una parte il
cosiddetto voto “utile” di governo al centro-sinistra; dall'altra il cosiddetto
voto di protesta ad una forza emergente (M5S) percepita come l'unica capace di
dare uno “scossone” al sistema politico;
-una spettacolare
rimonta di Berlusconi (che non ha prevalso per soli 120.000 voti..), che ha
evidenziato - oltre alle indiscutibili doti populistiche e demagogiche
dell'uomo e alle enormi risorse finanziarie e mediatiche di cui dispone - il
permanere nella società italiana di fasce consistenti di grettezza corporativa
e reazionaria (es. il mondo dell'evasione fiscale) e di “primitivismo”
culturale;
-un risultato deludente
del Centrosinistra, che ha prevalso nella sola Camera dei deputati e solo
grazie ad una legge elettorale scandalosa nel suo carattere
ultra-maggioritario; che ha perso milioni di voti nel corso di una campagna
elettorale condotta all'insegna della presunzione di autosufficienza, della
chiusura e del settarismo a sinistra, della condiscendenza al centro e
dell'ambiguità politica e programmatica; incapace di presentarsi al Paese con
un programma radicalmente alternativo al centro-destra e capace di intercettare
il malcontento di larghissimi settori sociali esasperati dall'iniquità sociale
e dalla corruzione. Tutto questo ha riaperto autostrade al populismo di destra
di Berlusconi sull'Imu e più in generale in difesa dell'evasione fiscale, da
sempre protetta e coltivata dal centro destra, e ha lasciato ampio spazio al
voto di protesta andato a Grillo o all'astensione.
In termini di voti
espressi e non di percentuali, il voto (inclusa l'astensione) ha espresso la
protesta o l'estraneità al sistema vigente della maggioranza assoluta degli
italiani, ed una ancora più vasta avversione alla politica dell'Ue, come hanno
rilevato con preoccupazione i suoi sostenitori. Questo malcontento sociale e
politico potrebbe aprire a sinistra spazi enormi di consenso, come si è visto
in altri paesi europei, che non è stato intercettato per subalternità alle
compatibilità di sistema (Pd) o per scarsa capacità di attrazione (Rivoluzione
Civile).
Il voto amministrativo
del maggio 2013 vede – in valori assoluti – un calo più o meno consistente di
tutte le maggiori formazioni politiche, una conferma della crisi di consenso
dei comunisti e una crescita enorme dell'astensione. Esso conferma una
situazione in cui il malcontento sociale e politico, a fronte di una delusione
per il comportamento disfattista dei dirigenti del M5S durante l'elezione
presidenziale e la formazione del governo, non si sposta automaticamente a
sinistra, ma si
riversa in misura
ancora più grande sull'astensione. Il che accentua, e non assolve, le responsabilità
soggettive e i compiti delle forze di sinistra.
La rielezione di
Napolitano ha visto:
-la debacle della linea
Bersani-Vendola, che i poteri forti hanno osteggiato considerandola non
sufficientemente compatibile al loro disegno;
-la vittoria dello schieramento
trasversale che, in sintonia coi poteri forti, puntava al governo delle larghe
intese (Napolitano, Berlusconi, Monti, parte del Pd) e che ha affondato
l'ipotesi di Prodi alla presidenza della Repubblica (con il concorso
determinante di un centinaio di franchi tiratori del Pd ed il “contributo” di
Grillo) aprendo la strada, con la rielezione di Napolitano, al ritorno di
Berlusconi al governo. Anche il rifiuto ostinato opposto dal Pd alla proposta
di votare Stefano Rodotà, che pure avrebbe avuto i numeri per diventare
Presidente e avrebbe rappresentato una svolta profonda, ha contribuito
all'esito negativo della vicenda.
Il passaggio dal
governo Monti al governo politico delle larghe intese, sotto la robusta regia
di Napolitano, non comporta alcuna sostanziale discontinuità di linea, salvo
che per una ormai diffusa percezione negli stessi gruppi dirigenti dell'Ue
della necessità di prendere alcune misure minime (almeno sul piano
propagandistico) per la crescita e l'occupazione. Ma sempre e comunque in
ambito liberista, senza alcun ruolo di programmazione dell'economia pubblica e
senza vincoli nella elargizione di denaro pubblico alle imprese.
Il governo Letta-Alfano
comporta semmai una assunzione della linea Ue con il diretto coinvolgimento
delle forze politiche, al di là dell'emergenza “tecnica”. E vanifica ogni
speranza (o illusione) che il Pd e il centro-sinistra potessero almeno
rappresentare un argine al ritorno di Berlusconi al governo. La designazione di
Emma Bonino agli esteri segna un'ulteriore deriva euro-atlantica,
filo-americana e filo-israeliana della politica estera italiana. I presidenti
delle Commissioni parlamentari, in cui molto sono impresentabili del PdL votati
dal Pd, completano un quadro politico indecente.
22-Berlusconi e il centro-destraIl
centro-destra italiano rappresenta per molti aspetti un’anomalia rispetto agli
schieramenti conservatori di altri paesi. Il suo “peccato originale” sta nella
confluenza, agli inizi del 1994, di Forza Italia (il “partito di plastica” di
Silvio Berlusconi, fondato il 6 febbraio e premiato, dopo una massiccia
campagna mediatica, da 8 milioni di voti), dei post-fascisti di Alleanza
nazionale, della Lega Nord di Bossi e della parte più conservatrice del mondo
cattolico. Le origini oscure del patrimonio di Berlusconi, i legami con settori
del mondo mafioso, un legame culturale e “sentimentale” col fascismo, la
continuità piduista, i tratti padronali e autoritari del “non partito”
berlusconiano e l’aggregazione attorno ad essa del “sommerso della Repubblica”
hanno segnato fortemente il centro-destra italiano, determinando anche il
riflesso da “fronte democratico” scattato a sinistra, segnato più da un
generico anti-berlusconismo che da una reale alternatività programmatica sulle
questioni di fondo.
Il centro-destra è
cambiato non poco dal 1994, perdendo “pezzi” importanti e vedendo modificarsi
il suo stesso elettorato. Tuttavia un blocco sociale di riferimento, sia pure
composito, è andato consolidandosi. Esso comprende settori del grande capitale
marginali rispetto alle reti principali della finanza internazionale e della
competizione internazionale (più legate al Pd), settori di piccola e media
impresa, poteri criminali ed economico-mafiosi, lavoratori autonomi, ma anche
lavoratori dipendenti, pensionati, casalinghe e settori di sottoproletariato.
Sono i settori politicamente e culturalmente più arretrati della società
italiana, che si oppongono per diverse ragioni ad una modernizzazione e
razionalizzazione del capitalismo italiano.
Nelle elezioni del 2013,
la quota di lavoratori dipendenti elettori del Pdl sale al 47% (sono il 54% nel
centro-sinistra). Gli operai in particolare sono il 25,8 nel voto del CD e il
21,7 nel CS (il 40% al M5S). Il blocco Pdl-Lega ottiene il 33% i tra pensionati
(40% al CS), primeggia tra le casalinghe (43.3%) e i lavoratori autonomi (50%),
ottiene il 20.7 tra i disoccupati (20,1 al CS e 42.7 al M5S). Gli studenti si
ripartiscono in modo pressoché eguale fra i tre principali schieramenti.
Il cemento unificante
del composito schieramento di CD comprende un mix di elogio sperticato
dell’iniziativa privata e dell'individualismo, una cultura maschilista ed
omofoba (diffusa anche in larghi settori del mondo femminile), un
anti-statalismo radicale, che si combina col tentativo demagogico e populista
di cavalcare l'insofferenza popolare per i vincoli Ue (e che trova spazio nella
totale ed autolesionista subalternità del Pd a tali vincoli).
Il fatto che Berlusconi
non rappresenti la carta su cui punta oggi il grande capitale italiano ed europeo,
non diminuisce la pericolosità del suo populismo reazionario, che – come
dimostrano le ultime elezioni – potrebbe ancora prevalere e fare nuovi danni al
paese (ad esempio accelerando il cammino verso il presidenzialismo, e
perpetuando la regressione culturale di una parte del nostro popolo). Ma quello
che ancora va denunciato è il carattere regressivo della proposta
economico-sociale della destra, non solo perché rappresenta la parte più
antipopolare ed antioperaia della politica italiana, ma per la rappresentanza
di interessi contrari ad uno sviluppo industriale e produttivo del paese di
tipo moderno e avanzato, fondato sulla ricerca, l'innovazione e sul vero
rischio di impresa. La destra di Berlusconi e di Tremonti, alleata con la Lega,
ha difeso per quasi un ventennio un sistema economico fondato sulla spaccatura
del Paese, sull'emarginazione del Mezzogiorno e delle sue forze produttive,
relegate ad un ruolo subalterno e parassitario per la concentrazione delle
risorse solo sugli interessi delle piccole caste industriali del Nord e del
Nord Est, ingrassate dalla mano libera fiscale, dai condoni, dalle politiche di
precarizzazione della forza lavoro, dal progressivo svuotamento di politiche
fiscali nazionali di solidarietà e di riequilibrio territoriale.
Anche alla luce di ciò
occorre riprendere la battaglia sociale, politica e costituzionale contro le
aberrazioni introdotte dalla stessa “riforma” del Titolo V della Costituzione
che, cercando di tamponare la retorica federalista e secessionista della Lega,
hanno nei fatti inseguito quelle forze, destrutturando la concezione unitaria e
nazionale dell'azione della Repubblica e delle sue articolazioni locali,
accentuando al contrario i localismi e i particolarismi, le derive
personalistiche di “governatori e sindaci eletti direttamente dal popolo”,
orientando in senso egoistico e neo-corporativo le politiche di spesa pubblica,
la concezione stessa dello Stato sociale nazionale (sanità, istruzione,
previdenza) e le forme del gettito fiscale necessario a sostenerlo, iniettando
nella coscienza collettiva i germi velenosi della rottura del patto sociale, la
negazione dei diritti universali di cittadinanza, la frattura tra le
generazioni.
23-La “casta” e il
Movimento 5 StelleLa degenerazione ideologica e culturale realizzata dal
ventennio del berlusconismo si è intrecciata con la crescente corruzione di una
parte del ceto politico. Ciò ha fornito ampio materiale per alimentare il
risentimento contro i partiti – la casta! – su cui lavorano da tempo quanti
prospettano lo smantellamento della repubblica costituzionale parlamentare,
fondata sulla centralità dei partiti di massa. L’attacco alla “partitocrazia”
contro cui tuonava Marco Pannella (che ottenne l’abrogazione del finanziamento
pubblico col referendum del 1993) è divenuto così il collante del M5S.
La crisi economica e le
politiche di austerità, che hanno imposto pesanti sacrifici ai lavoratori e ai
ceti più poveri, rendendo non più tollerabili i privilegi e gli sprechi di una
“casta politica” privilegiata incapace di far fronte alla crisi, hanno favorito
l’exploit elettorale del M5S alle politiche. Esso, facendo della distruzione
del sistema dei partiti in quanto tale la ragione prima e il collante del
movimento, elude programmaticamente il confronto sulle strategie politiche e
sulle proposte. Rifiutando per principio qualsiasi possibilità di accordo con
altre formazioni politiche (per non contaminarsi!!!), il M5S può vivere e
alimentarsi così dell’opposizione e della contrapposizione assoluta. Si propone
come contestazione e non come costruzione, lucrando così un quarto dei consensi
elettorali. I quali non servono però ad imporre nessun cambiamento all'agenda
politica che si va realizzando.
Il conflitto interno al
Pd nella recente vicenda elettorale (la candidatura prima di Marini e poi di
Prodi, sul quale era
parso in un primo momento palesarsi un gradimento da parte di Grillo, e poi il
ritorno al Colle per chiedere la rielezione di Napolitano) non copre
minimamente la scelta del M5S di lasciare che il quadro politico scivolasse
verso la soluzione auspicata da Berlusconi. Negando ogni sponda a Bersani e
Vendola nella formazione di un governo di centro-sinistra aperto al M5S, e
respingendo la candidatura di Prodi alla presidenza della Repubblica, Grillo ha
favorito la rielezione di Napolitano e il rientro di Berlusconi sulla scena.
Ma il successo
registrato alle politiche del M5S nasce anche dalle incapacità, dalla crisi
profonda, dalle divisioni e dalla scarsa credibilità dei comunisti e delle
forze di sinistra nel proporsi come un punto di riferimento credibile per il
crescente malcontento sociale che la gestione reazionaria della crisi del
sistema produce in larghissimi settori popolari.
I comunisti e la
sinistra debbono sapersi rapportare con intelligenza al M5S, senza demonizzarlo
né esaltarlo acriticamente, cogliendone le contraddizioni interne e la domanda
di partecipazione che pure ha raccolto. Sono presenti in una larga parte del
popolo e dell'elettorato grillino aspirazioni e spinte progressiste, e ciò
richiede che si presti una forte attenzione e capacità di interlocuzione verso
elettori ed eletti del M5S che si dichiarano di sinistra.
D’altra parte, non può
essere sottovalutato l'emergere di un progetto qualunquista del duo
Grillo-Casaleggio, volto ad introdurre nel nostro paese un sistema politico di
tipo americano che cancella i partiti ed i sindacati come soggetti che
promuovono una partecipazione attiva e di massa alla vita politica dei
cittadini e dei lavoratori come previsto dalla Costituzione. Anche il modello
di un uomo solo (o due...) al comando, con la copertura di un'apparente
“democrazia online”, configura un tassello dello smantellamento della
rappresentanza democratica e di una partecipazione popolare organizzata,
alimentando culture presidenzialiste.
24- Crisi del
centro-sinistra e involuzione del PdDopo la sconfitta di Bersani, settori
rilevanti del gruppo dirigente del Pd fanno ormai parte in modo sempre più
organico del blocco moderato e centrista, sia a livello nazionale che
euro-atlantico.
Altra cosa è una parte
significativa della sua base militante, dei suoi quadri intermedi e del suo
elettorato, in cui la formazione del governo Letta ha creato un disagio diffuso
ed ha aperto contraddizioni serie. A questa parte del popolo di sinistra
occorre rivolgersi, senza settarismo, affinché rifletta sulle ragioni dello
slittamento moderato del suo gruppo dirigente.
Il “centro-sinistra”,
almeno così come lo abbiamo conosciuto finora, non c'è più. Il nostro
orientamento deve dunque concentrarsi sulla costruzione di uno schieramento
unitario a sinistra, con un programma avanzato, che poi valuterà autonomamente
come rapportarsi alle contraddizioni interne e all'evoluzione di altre forze.
Rispetto
all'orientamento del congresso precedente, emerge dunque la centralità
dell'impegno sui temi dell'autonomia comunista e dell'unità della sinistra.
I comunisti e la
sinistra
25-Un fronte unitario
di sinistra che operi quotidianamente nella societàAbbiamo piena consapevolezza
autocritica che la mancata credibilità dei comunisti e della forze di sinistra
in Italia agli occhi dei loro referenti sociali naturali sia dovuta in massima
parte alla delusione che la sinistra stessa ha prodotto quando è stata al
governo; alla perdita crescente del suo radicamento sociale e della sua
vicinanza ai problemi e alle sofferenze della gente (che ha percepito anche i
gruppi dirigenti della sinistra come espressione di un ceto politico separato,
privilegiato, che si ricorda delle sofferenze del suo popolo solo in campagna
elettorale..); e in grande parte alle sue crescenti divisioni e frammentazioni,
che ne hanno moltiplicato l'irrilevanza sociale e politica (“dite anche cose
giuste, ma siete sempre più divisi e non contate niente”).
In questa crisi i primi
a essere colpiti sono le lavoratrici ed i lavoratori: sono essi a rimanere
privi di rappresentanza e di possibilità di incidere. Il nostro impegno
prioritario di comunisti sta dunque nel ricostruire – assieme ad altri – questa
rappresentanza, e nel ridare ai lavoratori strumenti di
organizzazione e una
prospettiva politica. Si tratta quindi di riuscire a trasmettere l’idea che la
presenza dei comunisti e della sinistra in questo Paese si lega in modo
indissolubile alla ricostruzione della rappresentanza politica dei lavoratori e
delle lavoratrici: è qui che maggiormente abbiamo fallito.
La ricostruzione di un
credibile processo unitario a sinistra comporta l'interlocuzione e il
coinvolgimento, in varie forme, di diversi soggetti sindacali e politici
organizzati:
-la Cgil e la sua
componente più avanzata, la Fiom, che rappresentano tutt'oggi, pur tra debolezze
e contraddizioni, la struttura democratica e progressiva più importante e
organizzata del movimento dei lavoratori. L'unica ancora in grado, ove se ne
determini la volontà, di mobilitare grandi masse su una piattaforma progressiva
capace di parlare al paese e di incidere in modo non testimoniale sui rapporti
di forza e di classe;
-il sindacalismo di
base che, con la sua generosa combattività. va considerato senza alcun
settarismo;
-la sinistra politica
organizzata: sia quella su posizioni anti-capitalistiche che esprime un minimo
di radicamento a livello popolare e respinge suggestioni settarie e
avventuriste (PdCI, Prc, Rete dei comunisti, Ross@, Movimento politico per il
partito del lavoro..); sia quella che esprime un orientamento riformista (Sel;
Azione Civile; soggettività progressiste del Pd);
-un insieme di
soggettività e associazioni democratiche e di sinistra (gruppi giovanili, Anpi,
Arci, Emergency, comitati contro la guerra, comitati per la difesa della
Costituzione, associazioni di solidarietà internazionalista, per i beni comuni,
contro il razzismo e l’omofobia, collettivi giovanili e studenteschi, gruppi e
movimenti di donne che lavorano per la pace, per i diritti, contro la violenza
e le discriminazioni..), nella varietà estrema in cui esse si articolano sui
territori.
Non ci nascondiamo le
difficoltà che si frappongono alla costruzione di un Frente amplio di queste
forze, ma non vediamo altra alternativa che non sia quella di una ulteriore
deriva, marginalizzazione o subalternità della sinistra italiana.
Vanno tenute insieme in
questo fronte, su un programma minimo condiviso, sia le componenti
anti-liberiste che quelle più marcatamente anti-capitalistiche, senza che
nessuno (e tanto meno i comunisti) rinunci alla sua autonomia e identità.
Ponendo l'accento, nelle lotte, su ciò che unisce piuttosto che su ciò che
distingue: questo ci chiedono i lavoratori e i gruppi sociali che cerchiamo di
rappresentare.
Questo fronte deve
saper operare quotidianamente nei diversi territori, nelle lotte locali, nel
rapporto con le istituzioni, con azioni di denuncia e propositive capaci di
intercettare un consenso e una partecipazione di massa. Occorre saper condurre
ad unità le singole lotte, in modo che ogni singola lotta o resistenza locale
acquisti il senso di un'azione per l’affermazione di un programma capace di
rivolgersi all'insieme del Paese, con una visione nazionale.
In questa lotta va
ricercata la convergenza più ampia con tutte le forze autenticamente
democratiche. Di fronte alle diversità di orientamento presenti nel mondo
capitalistico, i comunisti non sono mai stati né debbono essere indifferenti
nei confronti del prevalere dell’uno o dell’altro e non si augurano certo il
prevalere di quelli più reazionari ed oltranzisti. In qualunque momento, sia
sul piano delle alleanze sociali che di quelle politiche, i comunisti debbono
saper individuare l’avversario principale da battere, che non sempre è lo
stesso in ogni circostanza: oggi l’imperialismo più aggressivo, il
neoliberismo, il presidenzialismo. Le cose vanno viste ed analizzate per quello
che sono, se non si vogliono prendere lucciole per lanterne o coltivare
illusioni (anche sul piano della tattica elettorale) cui possono seguire
cocenti disillusioni e disorientamento politico.
26-Crisi e condizione
dei comunisti in ItaliaLa crisi non nasce negli ultimi anni, ha ragioni
profonde e non contingenti che risalgono già all'ultimo Pci e alle debolezze
originarie della Rifondazione: oggi esse giungono a compimento.
Si è gradualmente
allentato il rapporto tra i comunisti e il radicamento sociale organizzato, con
la classe operaia e il blocco sociale della trasformazione, attraverso una
degenerazione elettoralistica e di ceto politico sempre più staccato dal
conflitto sociale e dalle forze del lavoro. Vi è qui materia, anche per il
nostro partito, per una radicale riflessione autocritica, che non intendiamo
eludere in alcun modo.
Dobbiamo aprirci una
strada nuova nelle intemperie della crisi, ma non potremo farlo se non
guarderemo impietosamente ai nostri limiti politici e organizzativi. Se
facessimo del congresso un momento di autoassoluzione addossando ad altri le
responsabilità di una sconfitta storica renderemmo un pessimo servizio alla
nostra causa, a noi stessi, alla nostra passione e al nostro impegno.
I numeri della crisi
parlano da soli. Dal 1991 a oggi, i comunisti organizzati sono passati dagli
oltre 130.000 iscritti dei primi anni '90 ai 40-50.000 di oggi: con un
incredibile turn-over che viene valutato complessivamente in mezzo milione di
iscritti che in un ventennio sono entrati e usciti da Rifondazione e PdCI, a
conferma della struttura leggera, dimostratasi fragile e inadeguata, di queste
organizzazioni. La loro influenza elettorale è passata da oltre 3.200.000 voti
a meno di un milione.
27-Possibilità e
prospettive realistiche di una riorganizzazioneNon è possibile uscire da questa
crisi se non si supera questa deriva e non si inverte decisamente la rotta,
rilanciando il processo di ricomposizione unitaria dei comunisti (nelle forme
oggi possibili, a partire da una credibile unità d'azione) e, insieme con essi,
delle forze della sinistra anticapitalistica e antiliberista.
L’unità non può
costruirsi “a freddo”, ma nella dialettica di una lotta comune intorno a un
grande obiettivo condiviso, che oggi non può che essere la costruzione di un
fronte unito su un programma di transizione per uno sbocco
democratico-progressivo alla crisi.
Ciò richiede anche un
esame sereno dell'esperienza della Federazione della Sinistra, delle ragioni e
delle molteplici responsabilità che ne hanno determinato la crisi. Questo
bilancio, se vuole essere fruttuoso, deve essere condotto congiuntamente da tutti
i soggetti che vi hanno partecipato, senza recriminazioni o rappresentazioni
unilaterali dei motivi che ne hanno inficiato lo sviluppo. Anche per questo ci
assumiamo la nostra parte di responsabilità.
Occorre aprire un
dialogo e trovare forme di interlocuzione, consultazione, unità d’azione, in
primis tra quanti si richiamano alla grande esperienza del movimento comunista
mondiale e italiano e non intendono buttarla alle ortiche. Occorre trovare e
costruire luoghi, “case comuni” di elaborazione critica, discussione, proposta,
azione.
Alla fine, le possibili
alternative per i comunisti si riducono a due:
- o la rinuncia al
progetto comunista, la rimozione delle proprie radici ideologiche e culturali
(e di una storia più che secolare), sciogliendosi in altri partiti o movimenti;
-o la ripresa paziente
dell'impegno per la ricostruzione di un partito comunista degno di questo nome.
E se si rifiuta lo
scioglimento, a sinistra (in questo o quel movimento antagonista) o a destra
(nell'area socialdemocratica coperta da Sel e da settori del Pd), la
ricostruzione comunista non può ridursi allo sterile arroccamento
autoreferenziale e gruppuscolare, alla sola proclamazione di principi, ma deve
sapersi tradurre in azione politica quotidiana tra le masse, sulla base di un programma
e di un progetto unitario a sinistra.
28-Riorganizzazione
autonoma dei comunisti e unità della sinistra: due processi distinti ma
interdipendentiI comunisti oggi in Italia sono condannati all'irrilevanza
politica e sociale se non operano in stretto
collegamento con un
fronte unitario, sociale e politico, delle forze progressive e della sinistra.
Anche se fortemente
indeboliti, i comunisti sono ancora utili e necessari, organizzati in partito,
per portare nello scontro sociale e politico una visione generale delle
contraddizioni dello sviluppo capitalistico. E per far crescere nel nostro
popolo la consapevolezza che solo il socialismo, la conquista di posizioni che
consentano di avanzare verso il socialismo, una visione mondiale della sua
prospettiva, possono far avanzare i popoli e l'umanità intera verso soluzioni
compiute e durevoli alle contraddizioni del capitalismo della nostra epoca.
Questi elementi di
coscienza generale non si formano spontaneamente nello scontro di classe e
verrebbero meno se i comunisti confluissero e si sciogliessero in altre
formazioni della sinistra non comunista. Dove la loro autonomia teorica,
politica e organizzativa verrebbero un po' alla volta riassorbite e vanificate:
come dimostrano tutte le esperienze che in questo senso sono state sperimentate
nell'esperienza comunista italiana del dopoguerra e segnatamente nel ventennio
seguito allo scioglimento del Pci.
Non è certo per
nostalgia, per ideologismo astratto o per cocciutaggine politica, che
sosteniamo – qui ed ora – pur nelle condizioni di una crisi gravissima del
movimento comunista in Italia, la necessità di riorganizzare le forze per la
ricostruzione.
Sappiamo che non
esistono scorciatoie, e che la via maestra è quella del recupero lento,
paziente, di un radicamento sociale che in questi ultimi decenni è andato
perduto, e che possiamo ricostruire solo nel quadro di un largo schieramento
sociale e politico delle forze della sinistra, e con gruppi dirigenti nazionali
e territoriali all'altezza dei compiti attuali.
Non è del resto la
prima volta, nella storia d'Italia, che i comunisti si trovano ridotti ai
minimi termini. Nel 1924, prima dell'avvento del fascismo in regime e alla
vigilia delle Tesi di Lione, il partito di Gramsci e di Togliatti contava poco
più di 8.000 iscritti, che diminuirono drasticamente e furono ridotti
all'isolamento politico e ideale più nero nella società italiana, durante il
ventennio fascista. Erano 6.000 nel 1943, ma seppero giungere preparati ai
grandi appuntamenti della storia mondiale e nazionale: furono i principali
protagonisti della Resistenza, durante la quale raccolsero, tra i giovani e le
ragazze, quel che i meno giovani (mai pentiti) avevano seminato nel ventennio
precedente. Erano 2 milioni tre anni dopo. E cambiarono il destino della
nazione. Se quelle poche migliaia di compagne e compagni avessero capitolato,
la storia d'Italia sarebbe stata assai diversa.
29-Dare impulso
all’organizzazione unitaria dei comunistiSu questi temi (e sulle forme di
organizzazione) vanno organizzati subito, ai diversi livelli, luoghi comuni e
permanenti di approfondimento, un censimento delle forze e delle strutture
disponibili, con i quadri fondamentali della nostra e di altre organizzazioni,
che unisca una riflessione sulla moderna forma partito ad innovazioni pratiche
che rendano l’organizzazione comunista più consona alle sfide ed alle
possibilità dell’oggi.
Si rende necessaria una
grande inchiesta tra i militanti comunisti del nostro paese, in modo da
tracciare una mappa realistica (ed individuare così anche i limiti e le
difficoltà su cui lavorare) della forza e della presenza organizzata dei
comunisti. In questo modo potremo avere un'idea più precisa del radicamento
sociale organizzato nei luoghi di lavoro, nelle scuole o nelle università,
individuare e mettere in rete tra di loro quei sindacalisti o delegati in grado
di porre il partito in connessione stretta con le aziende ad alto livello di
sindacalizzazione e conflitto, piuttosto che gli studenti o gli insegnanti
capaci di dare impulso a nuclei organizzati in alcune università.
Vista la nostra
scomparsa dai grandi mezzi di comunicazione (a causa di una censura che ci
colpisce da ormai più di 5 anni), quanti sono i militanti, provincia per
provincia, che sono in grado di usare Internet e di stabilire un contatto
permanente on line con alcune centinaia, in alcuni casi migliaia, di persone? O
che già lo fanno, ma in forma totalmente scoordinata? È possibile immaginare un
sistema di comunicazione autonomo e telematico, capace di raggiungere, col lavoro
di questi compagni, almeno un milione di persone non impegnate politicamente,
oltre ai militanti ed i simpatizzanti del partito?
Sono solo alcuni esempi
di un lavoro concreto e possibile, che richiede però una rete di “capitani” in
grado di costruirlo e dirigerlo.
30-Il PdCI e il
progetto di ricostruzione del partito comunistaSi tratta di un processo di
lungo periodo, che richiede però alcune scelte inequivoche immediate.
Noi non ci consideriamo
la risposta al problema della ricostruzione del partito comunista in Italia,
degno di questo nome e all'altezza dei compiti, né il suo nucleo dirigente
predeterminato. Crediamo però di esprimere, oggi, un patrimonio importante di
idee ed una rete di alcune migliaia di militanti e di quadri che mettiamo al
servizio di un processo di ricostruzione, aperto alle soggettività comuniste,
organizzate e non, con cui sia possibile costruire alcune fondamenta comuni in
termini di affinità politica, programmatica, ideologica, di cultura politica e
dell'organizzazione.
Non è un’indistinta,
generica, eclettica “unità dei comunisti” quella che vogliamo perseguire, ma la
costruzione di un'unica, nuova organizzazione comunista, di tutte le forze che
in Italia si richiamano al patrimonio migliore del movimento operaio e
comunista italiano e internazionale.
La ricostruzione
comunista in Italia è quindi ad una fase cruciale: o la dispersione e
dissipazione, o la ripresa di un processo di reale ricostruzione.
Il congresso di Rimini
(ottobre 2011) ha già affrontato alcune questioni di fondo sui caratteri del
partito di quadri e di militanti oggi possibile e necessario, e sulla piena
disponibilità del PdCI - a partire dalla sua tenuta ed irrobustimento, e contro
ogni ipotesi liquidazionista - a mettersi a disposizione per la costruzione di
una organizzazione comunista più solida, in convergenza con altre forze e
innanzitutto coi compagni di Rifondazione che avvertono la stessa esigenza. Si
tratta di dar seguito a quelle decisioni e di attualizzarle, verificando
immediatamente gli interlocutori disponibili. Rivolgiamo tale invito in primo
luogo alle compagne ed ai compagni di Rifondazione e ai tanti senza tessera. Ci
auguriamo che la crisi induca tutti ad un minore spirito di autosufficienza, e
lo diciamo a partire da noi stessi.
Un partito che era
stato abituato a mantenere i suoi funzionari e le sue sedi attraverso il
finanziamento pubblico (e soprattutto le quote versate dagli eletti in
parlamento e nelle amministrazioni locali) si trova oggi a corto di mezzi,
nell’impossibilità di mantenere un apparato centrale significativo. Dovrà
abituarsi ad organizzarsi diversamente, a basarsi sul lavoro volontario delle
compagne e dei compagni, sulla ripresa di una capacità di autofinanziamento,
nelle forme più diverse che la società attuale consente. Occorre un partito di
militanti in cui ogni iscritto sia un attivista con responsabilità e compiti
precisi ed ogni militante svolga una funzione dirigente, operando politicamente
nel proprio luogo di studio o di lavoro, nel proprio territorio, nel proprio ambito
di competenza.
Oggi si tratta di
tornare ad essere comunisti nella società e nel territorio con tutti i
contenuti rivoluzionari che questo presuppone. Se non riprendiamo ad occuparci
dei problemi delle persone, della loro vita, del loro lavoro, del loro futuro,
per noi non c’è alcuna prospettiva di ripresa e di rilancio. Occorre tornare a
vivere e conoscere il dolore sociale e la sofferenza di milioni e milioni di
uomini e di donne, giovani e anziani, che in questo Paese non hanno lavoro, non
hanno reddito, non hanno un presente e non hanno un futuro e sono costretti a
vivere in condizioni di estremo disagio e povertà.
31-Assi portanti di un
programma minimoLa fase e i rapporti di forza non sono quelli che consentono
oggi un ingresso dei comunisti e della sinistra al governo su un programma
avanzato; è una fase di accumulazione di forze dall'opposizione, affinché si
creino condizioni nuove che consentano una guida rinnovata e progressiva del
Paese. Per questo occorre individuare un programma minimo su cui organizzare un
fronte unitario di sinistra: un programma che si ispiri alla Costituzione e che
faccia della sua strenua difesa e attuazione l’elemento portante.
Non è questo il luogo
per una dettagliata proposta programmatica, che intendiamo riprendere in sedi
apposite con tutte le forze disponibili a lavorare insieme. Alcune proposte
puntuali sono già presenti in questo progetto di risoluzione congressuale.
Indichiamo qui, in estrema sintesi, quelli che
consideriamo gli assi
portanti per la costruzione di un fronte democratico e progressivo:
-rispetto rigoroso
dell'art.11 della Costituzione e ripudio della guerra;
-rinegoziazione dei
trattati Ue, superamento del fiscal compact e del patto di stabilità;
-attualizzazione degli
artt. 41, 42, 43 che indicano la centralità del settore pubblico dell'economia
per una programmazione democratica, prefigurano una economia mista (pubblica,
privata, cooperativa), prevedono espropri e nazionalizzazioni a fini di pubblica
utilità, a partire dal settore finanziario. Senza un intervento pubblico
programmato, che rompa col liberismo, è illusoria non solo una fuoriuscita
progressiva dalla crisi, ma anche una pura e semplice ripresa economica e un
piano del lavoro che riduca disoccupazione e precarietà, salvaguardando i
diritti fondamentali del mondo del lavoro;
-stabilire il principio
secondo cui soldi pubblici dati a banche e imprese in difficoltà devono essere
condizionati all’effettuazione di assunzioni ed investimenti, su cui dovrà
essere esercitato un controllo pubblico: mai più soldi pubblici a fondo
perduto; le imprese che delocalizzano con perdita di occupazione in Italia
devono restituire le agevolazioni pubbliche di cui hanno beneficiato;
-sostegno alla scuola
pubblica, all'Università, alla ricerca, alla formazione e diffusione di una
cultura critica di massa, che restano architravi – oggi fortemente penalizzati
– per una crescita complessiva della nazione: non solo in campo economico e
tecnologico, ma anche nel processo di formazione di una coscienza critica del
cittadino, fondata sui valori universali della Costituzione;
-reperimento delle
risorse volte al finanziamento di un intervento pubblico nell'economia e della
modernizzazione di uno Stato sociale avanzato, attraverso la drastica riduzione
delle spese militari, la lotta contro l’evasione fiscale, il riequilibrio delle
aliquote a favore dei ceti medio bassi, imposte sui grandi patrimoni,
abolizione dei privilegi e riduzione degli stipendi dei parlamentari;
-centralità del sistema
parlamentare, rifiuto del presidenzialismo, legge elettorale proporzionale pura
e un Parlamento specchio autentico del Paese.
Su questi temi il
partito è impegnato ad una riflessione durante tutta la fase congressuale e
sarà compito della stessa definire un programma su cui impegnare tutti i
militanti in un lavoro sociale e politico, nel confronto con le altre forze.
Emendamenti al documento congressuale
EMENDAMENTO AGGIUNTIVO
(PARAGRAFO 1BIS)
L’AUTOCRITICA COME
STRUMENTO NECESSARIO
PER RINNOVARE IL PDCI
Il settimo Congresso
del Pdci presenta l'autocritica più severa, riconoscendo apertamente ed
onestamente che i difetti del partito, a 15 anni dalla sua fondazione, sono
numerosi. L'autocritica è fondamento stesso del nostro modo di essere e può
essere un fattore di arricchimento del Partito. Ovviamente è necessaria a tal
fine una critica onesta, aperta, l’autocritica comunista.
Un’ autocritica che
trova il suo fondamento nella chiara separazione tra politico e sociale, tratto
distintivo della sinistra italiana sbilanciata verso l’uno o l’altro aspetto,
che ha caratterizzato il nostro Partito negli ultimi anni e che ha sempre più
allontanato il Partito dalla realtà concreta e vissuta.
Il settimo congresso si
celebra all'indomani del disastroso risultato delle elezioni politiche del 24
febbraio 2013, che hanno nuovamente visto il partito e la sua coalizione
rimanere fuori dal parlamento nonostante l'aggravarsi della crisi economica che
è la più grave della storia del capitalismo, mettendo a nudo i gravi limiti
soggettivi dei comunisti e della sinistra italiana, arrivata ad essere
un'anomalia al contrario rispetto al protagonismo dei comunisti e della
sinistra in tutta Europa. Per la seconda consecutiva volta dalla fine della
seconda guerra mondiale nessun comunista siede in parlamento, ove le larghe
intese tecniche hanno assunto il profilo politico neoconservatore del governo
Letta/Alfano. Al risultato elettorale sono seguite le dimissioni del segretario
e della segreteria nazionale. Atto doveroso che non deve rimanere rituale ma
sollecitare la più ampia discussione sui percorsi e le scelte degli ultimi
anni, al fine di poter avviare il superamento della grave crisi che investe il
Partito.
Una posizione
giustificazionista ed autoassolutoria del fallimentare risultato non sarebbe
utile alla necessità stringente di svolgere una analisi oggettiva e veritiera
della nostra azione politica in questi anni.
Se perseverare
nell'errore è diabolico, ci siamo riusciti, insistendo in un'impostazione già
compiuta nel 2008 con l'esperienza della Sinistra Arcobaleno, pure
successivamente da noi stessi considerata molto negativamente
Purtroppo come PdCI, in
questi cinque anni abbiamo accumulato solo errori, ritardi, insufficienze e
inadeguatezze, consegnandoci alla tattica, al tatticismo esasperato e talvolta alla
subalternità, smarrendo visione generale e strategia complessiva.
Si badi bene, Grillo
cominciando dal 2007 è arrivato a diventare oggi il primo partito alla Camera.
Noi dal 2008 abbiamo solo collezionato sconfitte e insuccessi. La colpa non può
essere sempre degli altri. Evidentemente in questi anni non siamo più stati in
sintonia con il sentire comune dei lavoratori e delle lavoratrici, con le
ansie, le angosce e le speranze del nostro popolo, a cui invece Grillo con il
suo populismo è riuscito a parlare ottenendo un successo strepitoso.
Nell’attesa messianica
di elezioni che ogni anno dovevano essere anticipate, abbiamo praticamente
rinunciato a fare politica e a svolgere un ruolo attivo come comunisti nel
paese con proposte e iniziative.
Abbiamo compiuto scelte
che alla prova dei fatti e in diverse circostanze si sono rivelate disastrose.
All'inizio del governo Monti incredibilmente abbiamo fatto addirittura
un'apertura di credito nei suoi confronti.
Eppure dal Congresso
del 2008, dopo l'Arcobaleno, ci mettemmo a disposizione di una ricomposizione
unitaria dei principali partiti comunisti PdCI-PRC, ancora dotati di una rete
nazionale di compagne/i e di strutture, quale primo passo contro la diaspora e
la divisione che affligge il movimento comunista.
A questo fine abbiamo
orientato il nostro lavoro negli ultimi quattro anni, contribuendo alla nascita
della Federazione della sinistra e arrivando alla grande manifestazione del 12
maggio 2012 a Roma, nonostante le tante resistenze anche dei nostri gruppi dirigenti.
La Federazione della
sinistra è stata però varata, con pari responsabilità di PdCI e Prc, come
cartello elettorale ed è stata inizialmente costruita per impedire la fusione
tra i due partiti. L’idea di federare i due partiti per superare gli sbarramenti
e non cimentarli in una discussione strategica unitaria ha determinato un
dibattito tra gruppi dirigenti ristretti, interessati solo all’autotutela:
ovvero determinati a decidere su se stessi, aldilà e al di sopra di qualsiasi
necessità unitaria. Il sistema pattizio che sottostava a quel rapporto ne ha
determinato l’implosione di fronte alla divisione sull’unica questione che
aveva originato l’unità: le elezioni. Certamente la forma e la sostanza delle
esperienze politiche hanno un nesso indissolubile. Il motivo che ha fatto
nascere la FdS l’ha fatta morire. E le stesse modalità ambigue che l’hanno
tenuta insieme erano falsamente unitarie.
In tale quadro la
nostra spinta, seppure ostacolata dalla netta chiusura del Prc, non ha visto
una pratica concreta ed efficace nella direzione dell'unità. L'evocazione
dell'unità dei comunisti da sola non basta a produrre effetti.
Certamente poi le
scelte di linea del Pdci e la scarsa disponibilità e la chiusura del Prc, che
non ha avuto il coraggio di aprire ad un confronto pubblico con il
centrosinistra sul terreno dei contenuti, che da soli dimostravano
l'inconsistenza di ipotesi concrete di alleanze con il Pd, hanno fatto il
resto.
L'idea di un patto del
PdCI col Pd, che si fa largo nel partito a partire da luglio 2012, è risultata
velleitaria ed illusoria, ed è stata smentita dalla situazione concreta, dal
governo Monti come dall'art. 18 e dalla controriforma pensionistica, dalla fine
del bipolarismo come dalla forza e dalla decisiva influenza del capitale finanziario
sui maggiori partiti italiani, a cominciare proprio dal Pd. La decisione del
PdCI di partecipare alle primarie di novembre si è rivelata, pertanto, un grave
errore, che ha portato al definitivo superamento della Federazione della
sinistra e ad una svolta radicale e repentina nella politica del partito,
proteso ormai al momento elettorale come unico momento di mobilitazione,
nell’assunzione teorizzata di un unico obiettivo strategico: quello del
ritorno in parlamento a tutti i costi.
L’unica vera linea
politica che alla fine abbiamo avuto è stata quella di affermare la necessità
che i comunisti dovevano tornare in Parlamento e che senza questo sarebbe stata
la fine: per assecondare questo obiettivo abbiamo cercato di non disturbare il
manovratore non comprendendo che le alleanze sono il frutto dei rapporti di
forza e, quindi il PdCI, poteva essere appetibile solo se considerato
politicamente rilevante e capace di promuovere un’iniziativa politica autonoma.
Un obiettivo certamente
condivisibile ma non esclusivo: tornare in Parlamento era giusto ma non a tutti
i costi, senza rinunciare, quindi, alla nostra autonomia e senza accettare
alcuna subalternità.
La svolta dell’autunno
2012 ha gravemente disorientato e indebolito il nostro corpo militante. In modo
repentino ed eclettico si è passati dall'unità dei comunisti e dalla
Federazione della Sinistra alla propaganda per il voto alle primarie, prima per
Vendola e poi per Bersani, presentando al Partito un accordo con il PD che alla
prova dei fatti, già il giorno dopo la conclusione delle primarie, si è
rivelato totalmente inesistente.
Infatti, il Pd ha
rimandato al mittente ogni proposta di alleanza, perseguendo il proprio
progetto politico che mirava addirittura alla realizzazione di un’alleanza di
governo con l’UDC e con Monti. Nei confronti del Pdci nessun accenno neanche di
ringraziamento, mentre paradossalmente si è ringraziato il contributo di
chiunque altro alla realizzazione delle primarie e della relativa campagna.
Così, a due mesi dalle
elezioni il partito si è ritrovato isolato e solo grazie alla disponibilità di
una personalità come Ingroia, pur rivelatasi elettoralmente inconsistente, si è
potuto rimettere insieme ciò che si era appena rotto. Ci siamo dunque
presentati alle elezioni con Rifondazione, ma senza la Federazione della
sinistra, insieme a l'Italia dei valori e ai Verdi nella coalizione di
Rivoluzione civile. Quindi, a un mese dalla precedente svolta, nuova inversione
di linea politica, nuovo disorientamento del corpo militante e degli elettori.
In Rivoluzione civile, nonostante lavorassimo da 4 anni all'unità con
Rifondazione, ci siamo ritrovati in seconda fila, sia dal punto di vista dei
candidati che dal punto di vista dei contenuti, oltre che del simbolo, in una
campagna elettorale in cui il messaggio della coalizione è stato percepito
anzitutto come un messaggio legalitario, importante ma incapace di affrontare
adeguatamente la fase di disperazione sociale che stiamo attraversando.
Il risultato elettorale
di Rivoluzione Civile (di cui ci assumiamo, per la parte che ci compete, tutte
le nostre responsabilità) e con essa dei comunisti e delle forze di sinistra
che vi hanno contribuito ha anche delle peculiarità specifiche ed è stato
disastroso.
I tempi strettissimi
insieme alle scelte sbagliate sulle liste e sui contenuti della campagna
elettorale, sono stati i fattori determinanti di questa ennesima debacle che la
sinistra registra in questo paese.
Il coraggio
straordinario di Antonio Ingroia che va riconosciuto, apprezzato e ringraziato non
può annullare il gravissimo fallimento.
La cancellazione dei
partiti della sinistra con i loro simboli e i loro uomini e donne, sostituiti con improbabili e talora
improvvisati personaggi della cosiddetta società civile, si è rivelata un
errore grossolano.
La costruzione di liste
e candidature calate dall’alto senza alcun tipo di radicamento nei territori, è
stata un’operazione centralistica e verticistica che in partenza appariva
segnata dalla sconfitta.
Da questi risultati
bisogna trarre tutte le conseguenze, con una profonda autocritica e un
rinnovamento radicale dei gruppi dirigenti e della linea politica del Partito.
Purtroppo, neanche nel
2013 i Comunisti sono tornati in Parlamento, nonostante siano stati
sperimentati tutti i tatticismi possibili, a conferma ancora una volta del
fatto che la tattica non può in alcun modo supplire alla mancanza di una
politica e al deficit di un progetto.
È necessaria, pertanto,
un’ urgente e radicale inversione di tendenza per contribuire a salvare un
patrimonio culturale, storico e politico che è già alle nostre spalle, perché
non l'abbiamo difeso, rinnovato e vivificato come necessario. Ricominciare a
praticare l'idea originaria del partito, non come uno qualsiasi dei partiti
presenti o come uno strumento qualsiasi, ma come la parte migliore del paese,
degli operai, dei lavoratori, degli intellettuali, degli studenti, rifuggendo
qualsiasi idea di autosufficienza, di boria organizzativa, di recinti da
difendere in nome di chissà quale ortodossia, proprio mentre le condizioni di
vita del proletariato italiano, con i salari più bassi d'Europa ed ormai
sostanzialmente privo di un vero stato sociale, impongono anzitutto ai
comunisti di voltare pagina abbandonando per sempre le strade della propria
divisione e della autoreferenzialità.
Il nuovo gruppo
dirigente che uscirà dal Congresso dovrà essere l’espressione più alta della
capacità collettiva di rinnovare il Partito per realizzare le scelte politiche
innovative che il Congresso assumerà.
Dobbiamo aprirci una
strada nuova nelle intemperie della crisi, ma non potremo farlo se non
guarderemo impietosamente ai nostri limiti politici ed organizzativi. Se
facessimo del congresso un momento di autoassoluzione addossando ad altri le
responsabilità di una sconfitta storica renderemmo un pessimo servizio alla
nostra causa.
La dilapidazione del
nostro patrimonio è sotto gli occhi di tutti, ora si tratta di ricominciare
urgentemente e pazientemente a tessere il nostro filo dell'unità dei lavoratori
e della lotta contro le politiche di austerità e di miseria imposte dall'Europa
delle banche e del capitale finanziario. Riprendiamo in mano la battaglia per
la difesa e l’espansione dei diritti dei lavoratori e della democrazia, mai
così pericolosamente minacciati. Il nostro orizzonte rimane la costruzione del
socialismo nel XXI secolo.
MICHELANGELO TRIPODI
FABIO NOBILE
ITALO ARCURI
PAOLO BATTISTA
LUCA BATTISTI
FILIPPO BENEDETTI
ORESTE DELLA POSTA
FABRIZIO DE SANCTIS
LORENZO FASCI'
ROSANNA FEMIA
GIOVANNI GUZZO
DANIELA LABATE
GIULIA LOCHE
GLORIA MALASPINA
CLAUDIO MASSIMILLA
SARA MILAZZO
GIOVANNINO SANNA
ISABELLA SARTOGO
MICHELE TRIPODI
SAVERIO VALENTI
EMENDAMENTO AGGIUNTIVO
AL DOCUMENTO CONGRESSUALE
Premessa: il testo che
segue costituisce un emendamento complessivo aggiuntivo (1) al documento
politico, che ha lo scopo di evidenziare e motivare l'importanza
dell'assunzione da parte del Partito della questione dell'impegno politico
delle donne e delle politiche di genere nel quadro generale delle politiche
economiche e sociali.
Si è ritenuto di
doverlo proporre per consentire una discussione realmente integrata al percorso
congressuale a tutti i livelli previsti dal regolamento, data anche la mancata
conseguenzialità data a questi argomenti dopo il VI Congresso del Partito.
Un Partito di donne e
di uomini, per donne e per uomini (26 bis)
La crisi economica e
sociale che stiamo vivendo impone l’indispensabile e improcrastinabile
coniugazione, in termini di rapporti tra i generi e tra le generazioni, delle
politiche di volta in volta necessarie a combattere gli effetti devastanti
della crisi del capitalismo e a promuovere concretamente la fuoriuscita da un
sistema di rapporti sociali e tra le classi che sta distruggendo il pianeta.
La crisi devasta i
rapporti sociali tra le generazioni, le classi, i generi ed il sistema di
welfare che, per restare al solo ambito europeo, ha caratterizzato il
compromesso sociale e simbolico raggiunto nei diversi Paesi dopo la conclusione
del secondo conflitto mondiale.
Per questo l'obiettivo
da sempre dei comunisti – la liberazione di uomini e donne dallo sfruttamento –
deve essere oggi interpretato sia nel senso della classe, che di quello di
genere.
La crisi infatti
investe non solo l'economia, ma anche la politica, la democrazia
rappresentativa, le relazioni sociali, sindacali, tra i generi.
Di quest'ultimo
aspetto, l'evidenza più drammatica è espressa dall'esplosione della violenza
sulle donne e del femminicidio, frutto anche dell’incrudimento dei rapporti
sociali tra i sessi che la crisi – appunto – non fa che acutizzare. La crisi
del patriarcato (ed il superamento della sua egemonia nei rapporti sociali tra
i sessi) su cui l’ordine mondiale capitalistico che abbiamo fin qui conosciuto
si è essenzialmente fondato, è lo specchio del declino del mondo occidentale.
La ritualità con la
quale la politica affronta oggi in Italia la condizione delle donne e le
politiche di genere è emblematica, sia per quanto attiene i grandi temi
dell'emancipazione e del lavoro, sia per quanto attiene le politiche
istituzionali e la partecipazione delle donne alla vita politica. In poche
parole, tutto viene risolto in termini di un'apparente e nominalistico spazio
di opportunità, senza che le stesse vengano declinate in ragione del genere e,
quindi, delle politiche economiche, culturali e sociali necessarie a colmare
svantaggi e arretratezze di partenza, rinnovate e acuite dalla crisi in essere.
Le politiche per le
donne sembrano essere affidate nuovamente ai movimenti (uno per tutti: Se non
ora, quando): gruppi e movimenti di donne che lavorano per la pace, per i
diritti, contro la violenza e le discriminazioni, mentre la presenza delle
donne sulla scena politica sembra essere favorita più dal sistema delle
cooptazioni, che da una reale opportunità di promozione soggettiva e collettiva,
facilitata da condizioni di contesto che liberino il tempo delle donne, ancora
oggi principali sostituti delle politiche di welfare.
Welfare e questione
sociale, lavoro e parità – salariale e familiare – costituiscono l'eterno nodo
della condizione delle donne.
L'attuale condizione
del mercato del lavoro, che oggi come alla fine dell' '800 torna ad essere un
vero e proprio “mercato”, come già sottolineato al punto 12 vede arretrare
tutti i diritti, a partire da quelli delle donne, per le quali torna ad essere
messo in discussione il desiderio stesso di lavorare: il part-time torna ad
essere non una scelta personale in determinati periodi della vita lavorativa ma
una imposizione dell’azienda, anche pubblica, che cerca di contrabbandare un
pesante ritorno simbolico e reale al ruolo domestico femminile come maggior
libertà per i soggetti (in stragrande maggioranza donne) che lo “accettano”; la
maternità torna ad essere un ostacolo per la “produttività” delle aziende
(anche pubbliche) che la disincentivano con demansionamenti e arresti di
carriere per le donne che rientrano dall’aspettativa post parto; il matrimonio
torna ad essere un ostacolo quasi insormontabile, e periodicamente compaiono e
ricompaiono le dimissioni in bianco che le ragazze vengono obbligate a firmare.
Le leggi (quelle a tutela delle donne, della famiglia, dei bambini) tornano a
fermarsi sulla soglia della fabbrica, dei negozi, delle aziende di qualunque
tipo e dimensione: un fenomeno che presto si estenderà anche ad altri settori,
come la salute di lavoratori e lavoratrici, rimessa a rischio impunemente, come
la crescita ininterrotta delle morti sul lavoro e in conseguenza al lavoro sta
a dimostrare. E gli uomini ricominciano ad imparare che ciò che si toglie prima
alle donne e ai lavoratori più giovani o più fragili (immigrati, disabili,
malati) prima o poi colpirà anche i diritti ritenuti (sbagliando) acquisiti dal
lavoratore maschio. Emblematica è la disparità salariale delle donne, a
qualunque livello di carriera si trovino e nonostante, in Europa, siano quelle
che lavorano più ore dovendo sostenere con le proprie forze più delle altre
cittadine europee anche il lavoro “riproduttivo”.
Contestualmente a
questo, si registra il permanere al lavoro delle donne più anziane, che nel
breve periodo raggiungerà una soglia vicina ai 70 anni. La “riforma” Fornero
delle pensioni è stata un danno per tutti, donne e uomini, ma per le donne ha
segnato un ulteriore arretramento: la parificazione dell’età pensionabile tra i
sessi, in strumentale ossequio ad una norma Ue, cancella il riconoscimento del
doppio lavoro femminile, produttivo e riproduttivo, che il movimento delle
donne ed il movimento operaio, anche attraverso la CGIL ed il PCI, avevano
conquistato.
Le forme di lavoro
precario (come inizialmente il part-time) sono parse, all’inizio, salvaguardare
il lavoro delle donne, che ancora, nel nostro Paese, devono trovare soluzioni
individuali alla indispensabile conciliazione tra lavoro produttivo e lavoro
riproduttivo. Oggi, quel trend positivo iniziale non esiste più e le forme di
lavoro precario, a lungo chiamato anche dal sindacato e dalle forze di sinistra
“atipico”, è diventato la norma. Ancora una volta, gli uomini si ritrovano a
sperimentare forme di cui poco si sono occupati, politicamente parlando, finché
interessavano solo le donne.
Da ciò sentiamo la
necessità di riprendere un'analisi “antica”: la contraddizione di genere è ben
più antica del capitalismo, ma è stata da questo assunta in quanto funzionale a
mantenere divisioni nel corpo sociale, anche all’interno delle stesse classi
lavoratrici.
La partecipazione
attiva delle donne alla politica, intesa come luogo delle scelte economiche e
sociali, ossia della presenza femminile nei partiti e nelle istituzioni, è
perciò questione rivoluzionaria. Erroneamente, e opportunisticamente, con uno
spirito “normalizzatore”, in Italia si è scelto di individuare come
“femminismo” solo l'area più radicale del movimento che ha attraversato il
mondo negli anni '70 con fondamentali conquiste, culturali e civili. Ma il
femminismo è stata una leva determinante per l'emancipazione delle donne di
almeno due generazioni, producendo un'inedita partecipazione alle lotte sociali
e sindacali per i diritti civili, del lavoro e del welfare. Oggi torna ad
essere un nodo centrale il rapporto tra le donne, i movimenti delle donne, il
femminismo e le sue idee, la politica che viene fatta nelle e dalle istituzioni
democratiche, la selezione del personale politico femminile, la rappresentanza
dei movimenti e della cultura delle donne nelle istituzioni democratiche. Nel
senso più largo, il principio fondante di questa cultura politica è che uomini
e donne hanno sensibilità diverse, culture diverse, diritti eguali. Essere
donna costituisce pertanto una condizione che merita riconoscimento politico e
quindi bisogna anche ripensare quei diritti e ripensare le politiche necessarie
a renderli attuali, tenendo conto dell’esistenza di due sessi. E le istituzioni
politiche della democrazia rappresentativa sono il terreno indispensabile dove avviene
questa traduzione della cultura politica femminista in politiche attive.
La lunga marcia
femminile dentro le istituzioni, una marcia anche simbolica, ha portato fino
alla stesura, in Europa, del Patto di Genere promulgato dal Consiglio Europeo
il 7 marzo 2011. Un atto politico chiave di cui sembra che in Italia non ci
siamo ancora resi ben conto.
Per trasformare una
cultura politica in policies, però, ci vuole un personale politico capace di
farlo in prima persona: nelle istituzioni della democrazia – e i partiti ne
sono parte essenziale – interessa che ci siano molte donne. Per esse, infatti,
i punti di attacco delle politiche di genere sono anche i temi più attuali e
scottanti: il welfare e il lavoro, la trattazione del corpo delle donne sui
media, la presenza paritaria al 50% nei luoghi di decisione, il contenimento
della violenza e del femminicidio. Ma bisogna che cambi la cultura politica ed
economica di chi fa le leggi, ad includere le considerazioni relative al
genere. E questo non lo fa la piazza. E non basta cambiare alcune persone con
altre.
Il Partito dei
Comunisti italiani si impegna a favorire questo processo a partire da sé,
convinto che le istanze sollevate dalle donne non possano avere il cappello di
qualcun altro, né essere dalle stesse perseguite “con il cappello in mano”.
Perché ciò sia
possibile, occorre mettere a disposizione di donne e uomini, di giovani e
ragazze luoghi di elaborazione e coordinamento del partito.
L’ultimo congresso ha
espunto dallo Statuto i luoghi specifici delle donne comuniste e dei lavoratori
e delle lavoratrici comunisti. È stato un errore, che ha disarmato il partito
proprio laddove più problematico era ed è il suo insediamento. L’Assemblea
nazionale dei lavoratori e delle lavoratrici e l’Assemblea nazionale delle
donne (per la quale un nutrito gruppo di compagne sta lavorando da qualche mese
in tutta Italia) possono tornare ad essere strumenti dell’azione dei comunisti
e delle comuniste, ed altri vanno pensati e sperimentati insieme a loro.
Ripristinarli può però consentire fin da subito l’avvio di un lavoro serio per
affrontare due problemi politici di grande rilevanza: quello della formazione
di quadri operai e della facilitazione della partecipazione dei lavoratori e
delle lavoratrici all'elaborazione della politica del partito; quello della
rappresentanza di genere, che resta una delle lacune più pesanti del nostro
lavoro. Troppo poche sono le donne iscritte e negli organismi dirigenti del
partito ad ogni livello. Troppo poche le elette nelle istituzioni. Mettiamo
insieme lavoratori e donne perché essi sono, da sempre, l’asse portante della
rivoluzione comunista. Per dirla con Camilla Ravera, prima ed unica donna
segretaria generale del PCI durante la clandestinità, e con il Gramsci dell’
“Ordine nuovo”, “...comunismo significa: la donna libera dall’uomo; l’uomo e la
donna liberi dal capitale.”.
Il PdCI, in quanto si
pone l’obiettivo di ricostituire nel tempo un partito comunista di massa in
grado di superare il sistema capitalistico, non può più eludere la contraddizione
di genere in tutta la sua portata, che va affrontata insieme a quella
capitale-lavoro e a quella capitale-natura. Le tre contraddizioni si
intrecciano in molti modi e senza capire e affrontare questi intrecci, e senza
tener conto di quanto è avvenuto nel mondo anche al di fuori del pensiero e
della tradizione comunista, non è possibile dotarci di una teoria e di una
prassi che ci consentano di perseguire scopi ambiziosi e difficili da
raggiungere come quelli che ci poniamo.
Per essere consapevoli
di questa necessità, occorre partire da un dato di fatto: il PdCI non è in
grado – allo stato attuale – di interessare, attirare ed aggregare in forma
politicamente attiva le donne, che costituiscono il 52% della popolazione
italiana. Dichiarare nel suo complesso il 18% di compagne sul totale degli
iscritti significa non aver percepito, nella propria attività politica, un
evidente squilibrio nella sua composizione di genere, o non averlo considerato
un problema da affrontare.
Il fatto che la
questione di genere sia ancora vissuta dai più, nel nostro stesso partito, o
come questione marginale che interessa solo le donne, o come questione di
categoria o di soggetto debole da tutelare, o come argomento trito e noioso, ci
porta a dire che esiste ancor oggi, nel PdCI come nell’intera società, una
“questione maschile” più che una questione femminile e la scarsa partecipazione
di donne alla vita del partito è un problema del partito, non delle donne.
FIRMATARI
1.Dina BALSAMO
2.Luca BATTISTI
3.Alessandro CALIANDRO
4.Maurizio CALLIANO
5.Fabrizio DE SANCTIS
6.Rosanna FEMIA
7.Daniela LABATE
8.Giulia LOCHE
9.Gloria MALASPINA
10.Vladimiro MERLIN
11.Fabio NOBILE
12.Gianni PAGLIARINI
13.Nadia SCHAVECHER
14.Monica SECCI
15.Michelangelo TRIPODI
16.Delfina TROMBONI
EMENDAMENTO SOSTITUTIVO
DEL PARAGRAFO 24
FINE DEL
CENTROSINISTRA, NATURA DEL PD
E LA NOSTRA
COLLOCAZIONE
Il processo di
ristrutturazione capitalistico della società europea non poteva attuarsi senza
l’impegno della politica e dei partiti “tradizionali”. A tale riguardo, non si
sono registrate differenze significative tra grandi partiti di centrodestra e
di centrosinistra. Anzi, la socialdemocrazia europea ha svolto un ruolo
decisivo nell’attuazione dei nuovi assetti. L’allineamento di centrodestra e
centrosinistra sulle politiche della Ue e della Bce ha provocato in Italia ed
Europa occidentale la crisi del bipolarismo, l’emergere di terzi e quarti poli
e, soprattutto, l’aumento dell’astensionismo.
In Italia il Pd
presenta, accentuate, le caratteristiche di degrado della sinistra europea. Il
Pd, in quanto erede del Pds e dei Ds oltreché del Popolari e della Margherita,
nasce fuori dell’ambito socialdemocratico tradizionale, ispirandosi alla
liberal-democrazia. Il Pd si è fatto rappresentante, nel corso degli ultimi
anni, delle principali tendenze di controriforma a livello politico ed
economico. Ma questa deriva era già stata avviata con le scelte in materia di
governabilità, con le modifiche della Costituzione e del sistema elettorale, in
senso maggioritario e bipolare, con la legge Treu dei processi di
precarizzazione, con la riduzione della progressività delle imposte e con
spinta alle privatizzazioni, con l’allineamento alla Nato e agli Usa e con
l’appoggio all’aumento delle spese militari e all’interventismo militare
italiano all’estero.
Soprattutto, il Pd si è
fatto difensore dell’euro e del processo di unificazione europeo,
rappresentando un fondamentale pilastro delle politiche di austerity. La
contrapposizione personalistica a Berlusconi - contro il quale, allo scopo di
preservare il bipolarismo, il Pds-Ds-Pd non ha mai affondato il colpo - ha
mascherato una durevole convergenza bipartisan sulle questioni decisive, che si
è manifestata apertamente con il sostegno al governo Monti e con il governo
dell’inciucio Letta-Alfano.
Una parte importante
della base e dell’elettorato del Pd sono orientati a sinistra. Ma non sono
questi a decidere gli indirizzi e soprattutto la natura di classe del Pd, di
cui settori rilevanti del gruppo dirigente fanno ormai parte in modo sempre più
organico del blocco moderato e centrista, sia a livello nazionale che
euro-atlantico. Il gruppo dirigente del Pd, per quanto diviso, è oggi
espressione anche di importanti settori del capitalismo italiano ed internazionale,
come dimostrano le politiche europee concretamente portate avanti, il continuo
riferimento ai mercati finanziari, la frequentazione di forum come Trilaterale,
Bilderbeg e Aspen di suoi esponenti come Letta, il ruolo che vi ricoprono
uomini come Colaninno, e l’appoggio che organi di stampa, espressione della
borghesia internazionale, hanno dato alle ultime elezioni a Bersani e al Pd.
Noi dobbiamo evitare
settarismi ed opportunismi, rivolgendoci a tutti i lavoratori, compresi quelli
che votano Pd. A questa parte del popolo di sinistra occorre rivolgersi
affinché rifletta sullo scivolamento moderato del suo gruppo dirigente. Ma
dobbiamo rivolgerci anche a quelli che votano M5S e soprattutto a coloro,
sempre più numerosi, che si astengono. Ma se vogliamo fare questo per davvero,
riconquistando la credibilità perduta dinanzi ai lavoratori, dobbiamo
abbandonare ogni posizionamento subalterno, tatticista, ondivago e incerto.
Nel contesto di un
attacco senza precedenti alle classi lavoratrici e di crisi di legittimità
della politica tradizionale è imprescindibile assumere una collocazione
politica che risulti coerente con la nostra analisi su tutte le tematiche
principali, a partire dall’Europa. Una linea politica di questo tipo è, nei
fatti, in netta contraddizione con la linea strategica perseguita tenacemente
dal Pd a livello nazionale ed europeo.
Tale situazione
pertanto, se vogliamo mettere in atto l’autonomia politica e ideologica dei
comunisti, rende impraticabile e non credibile, sul piano nazionale, ipotesi di
alleanze con il Pd.
Il “centro-sinistra”,
almeno così come lo abbiamo conosciuto finora, non esiste più. Il nostro lavoro
deve indirizzarsi alla costruzione di un Fronte unitario e di sinistra che
raccolga quelle forze che siano realmente disponibili a ingaggiare la battaglia
di opposizione contro il nuovo Governo Letta-Alfano e ad avviare finalmente
anche in Italia un’iniziativa dal basso sui temi dell’Europa. In questo senso,
rispetto all’orientamento del congresso precedente, emerge la centralità dell’impegno
sui temi dell’autonomia comunista e dell’unità della sinistra.
SARA MILAZZO
DANIELA LABATE
GIULIA LOCHE
FABIO NOBILE
MICHELANGELO TRIPODI
ITALO ARCURI
PAOLO BATTISTA
LUCA BATTISTI
FILIPPO BENEDETTI
ORESTE DELLA POSTA
FABRIZIO DE SANCTIS
LORENZO FASCI'
ROSANNA FEMIA
GIOVANNI GUZZO
GLORIA MALASPINA
CLAUDIO MASSIMILLA
GIOVANNINO SANNA
ISABELLA SARTOGO
MICHELE TRIPODI
SAVERIO VALENTI
EMENDAMENTO SOSTITUTIVO
AL PARAGRAFRO 30
UNITÀ DEI COMUNISTI E
FRONTE UNITARIO DELLA SINISTRA
Il movimento comunista
italiano affronta oggi una delle più gravi crisi della sua storia ed esiste il
rischio concreto che i comunisti vengano eliminati come soggetto politico
capace di avere un ruolo attivo nella realtà del paese. Di fronte a questa
minaccia e alla forza dell’attacco in atto contro la classe lavoratrice, la
sola idea che i partiti comunisti esistenti possano essere divisi o addirittura
in competizione tra loro è inammissibile. Dunque, la questione dell’evoluzione
e dell'autosuperamento contestuale delle attuali organizzazioni, per dar vita
ad un nuovo soggetto comunista unitario, è una questione di assoluta urgenza.
In questo senso noi non
ci consideriamo la risposta al problema della ricostruzione del partito
comunista in Italia, degno di questo nome e all'altezza dei compiti, né il suo
nucleo dirigente predeterminato. Crediamo però di esprimere, oggi, un
patrimonio importante di idee ed una rete di alcune migliaia di militanti e di
quadri che mettiamo al servizio di un processo di ricostruzione, aperto alle
soggettività comuniste, organizzate e non. Non è un’indistinta, generica,
“unità dei comunisti” quella che vogliamo perseguire, ma la costruzione di
un'unica, nuova organizzazione comunista, di tutte le forze che in Italia si
richiamano al patrimonio migliore del movimento operaio e comunista italiano e
internazionale. La ricostruzione comunista in Italia è quindi ad una fase
cruciale: o la dispersione e dissipazione, o la ripresa di un processo di reale
ricostruzione.
Dobbiamo, però, partire
dalla constatazione che negli ultimi cinque anni il progetto di unità dei
comunisti è stato lanciato molte volte, senza che ci si avvicinasse di un palmo
alla sua realizzazione. È ovvio che non è facile realizzare tale unificazione
tra organizzazioni e soggetti politici divisi da un quindicennio. Una certa
resistenza da parte delle organizzazioni esistenti e dei loro gruppi dirigenti
è comprensibile ma non più giustificabile in alcun modo. Rimpallarsi a vicenda
le responsabilità della mancata unificazione non ci fa fare alcun passo in
avanti. Dobbiamo uscire dalla pura declamazione dell’unità dei comunisti, per
corrispondere nella pratica politica alla domanda crescente di unità che
proviene da vasti settori di quello che possiamo ancora definire il popolo
comunista con e senza tessera.
Ci auguriamo che la
crisi induca tutti ad un minore spirito di autosufficienza, e lo diciamo a
partire da noi stessi.
In tal senso vogliamo
cominciare fin da subito ad agire l’unità dei comunisti e avanziamo questa
proposta in primo luogo ai compagni e alle compagne di Rifondazione Comunista e
della sinistra diffusa che non si riconoscono
più in nessuna organizzazione politica.
L'unità si può fare
solo se c'è chiarezza sulla collocazione politico-strategica dei comunisti e se
su questa si verifica l'esistenza di una reale condivisione dei militanti.
Da questo punto di
vista vanno recuperati all'attualità alcuni principi fondamentali posti
all'origine del nostro movimento:
- il superamento del
capitalismo e la costruzione del socialismo del XXI secolo quale obiettivo
strategico unificante di fondo.
- la completa ed
assoluta autonomia politica dalle classi dominanti, ovvero la centralità del
conflitto capitale/lavoro che si fa organizzazione.
- l’opposizione senza
mediazioni possibili alla guerra imperialista e l’impegno permanente per la
pace.
Se vi è condivisione di
tali principi tutto sarà possibile e non procedere unitariamente costituirebbe
una responsabilità politica imperdonabile verso i nostri referenti sociali.
Nell’immediato, la
nostra azione dovrebbe focalizzarsi contro le politiche imposte dal capitale
finanziario europeo per mezzo della Bce e dei singoli governi. Un’iniziativa di
lotta politica e sociale che punti, cioè, alla rottura dei vincoli e degli
equilibri che attualmente regolano l’Unione Europea.
In tale contesto,
diventa fondamentale per il nostro futuro tornare ad essere percepiti come
utili, tornare ad essere comunisti nella società e nel territorio con tutti i
contenuti rivoluzionari che questo presuppone. Siamo consapevoli che se non
riprendiamo ad occuparci anzitutto dei problemi delle persone, della loro vita,
del loro lavoro, del loro futuro per noi non c’è alcuna prospettiva di ripresa
e di rilancio. Occorre tornare a vivere e conoscere il dolore sociale e la sofferenza
di milioni e milioni di uomini e di donne, giovani e anziani, che in questo
paese non hanno lavoro, non hanno reddito, non hanno un presente e non hanno un
futuro e sono costretti a vivere in condizioni di estremo disagio, povertà e
disgregazione sociale.
Unità dei comunisti non
come fatto nostalgico o passatista, ma come espressione di una necessità
urgente frutto delle contraddizioni, delle diseguaglianze e delle ingiustizie
di questo inizio di terzo millennio, per promuovere contenuti rivoluzionari di
trasformazione economica e sociale, per costruire un nuovo soggetto politico
fondato sulla centralità del lavoro e capace di essere considerato utile e credibile dalle classi sociali che
vogliamo sostenere e rappresentare.
Per riuscire a
realizzarla nella pratica va intrapreso, da subito, un percorso in tal senso e
soprattutto vanno definiti, almeno in linea di massima, i passaggi e i principi
di tale percorso. Qui di seguito ne proponiamo alcuni.
L’unificazione non
potrà avvenire che attraverso un percorso unitario, democratico e aperto, al
quale il Pdci con i suoi militanti si rende fin d'ora disponibile. Quindi
nessuna unità pattizia come nella FDS, ma la scelta del protagonismo dei
militanti, nelle mani dei quali rimettere tutte le decisioni.
Dobbiamo sapere che
quello che individuiamo è un percorso di lotta politica, culturale e
organizzativa. Tale percorso è tuttavia urgente e deve avere inizio da
quest'anno.
Il processo di
unificazione auspica la partecipazione, in primo luogo, delle due principali
organizzazioni comuniste, il PdCI e il Prc, ma deve fare in modo di attrarre,
su un piano di parità, anche i comunisti al di fuori di queste due
organizzazioni, con una particolare attenzione ai molti senza partito e ai
moltissimi, che sono fuoriusciti da PdCI e Prc negli ultimi anni. Il recupero
del patrimonio di militanza perduto deve essere un obiettivo fondamentale del
nuovo partito, insieme e collegato all’altro obiettivo principale: il recupero
alla lotta politica dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, degli
studenti e degli intellettuali.
L’unificazione dei
comunisti è necessaria e possibile. Non possiamo, però, negare l’esistenza di
differenze tra le organizzazioni, in qualche caso non di poco conto. Tali
differenze sono, in parte minore, il prodotto della sconfitta e della forte
offensiva ideologica e politica dell’avversario di classe. In parte forse
maggiore, sono la conseguenza della mancanza di un dibattito e di un confronto
unitario, nonché della indisponibilità a confrontarci e a fare i conti con i
nostri limiti e la nostra storia. Noi crediamo che queste differenze non siano
tali da impedire il processo unitario. Crediamo, altresì, che già all’interno
del percorso unitario si possa cominciare a costruire momenti di confronto unificanti,
partendo dall’analisi della realtà e delle sue modifiche. A questo scopo
pensiamo che insieme all'unità d'azione sul terreno della lotta sociale e
politica, debbano essere organizzati
seminari congiunti di PdCI e Prc aperti al contributo di tutti i comunisti, di
dibattito e approfondimento sui temi principali, dall'Europa, alla forma
partito, al sindacato.
L’unificazione dei
comunisti è condizione necessaria ma non sufficiente alla ripresa della lotta e
alla ricostruzione del radicamento sociale. Anche se oggettivamente l'unità
costituisce già maggior radicamento e maggiore credibilità. Alla ricostruzione
di un nuovo e unitario soggetto comunista va, quindi, accompagnato il tema
della costruzione del Fronte unitario della sinistra. Un Fronte il cui valore
fondante sia l’alternativa alla natura e alle politiche dell’Unione Europea e
alle sue braccia operative: il PPE ed il PSE. Un Fronte che si costruisca a
partire dagli obiettivi di lotta politica e sociale e che sappia, nella
chiarezza degli obiettivi ma senza settarismi, allo stesso tempo allargare la
sua azione nella costruzione dell’opposizione al Governo Letta/Alfano ed alle
politiche di Confindustria. Di fronte ai vari percorsi in campo a sinistra,
l’unica via per favorire un lavoro unitario e processi di riaggregazione è
definire obiettivi e percorsi di lotta chiari dentro cui sedimentare
organizzazione e prospettiva.
Il Congresso
straordinario è il primo atto necessario e doveroso per aprire un confronto
libero da condizionamenti e per decidere cosa si vuole fare di questa comunità
chiamata PdCI, alla quale ci siamo dedicati e per la quale in questi anni ci
siamo spesi con passione e generosità conseguendo in talune realtà anche
risultati significativi. Prendiamo atto finalmente che non siamo più
autosufficienti e che questo richiede l’assunzione di scelte innovative, di
svolta e di rinnovamento che finora non abbiamo avuto il coraggio di compiere.
Ci rivolgiamo pertanto innanzitutto a Rifondazione comunista per avviare questo
percorso.
Non c’è più nessun
orticello e nessuna rendita da difendere.
Lanciamo un appello a
tutti/e coloro i quali pensano che è possibile promuovere e sviluppare un
progetto di unità dei comunisti e della sinistra e sono interessati/e e
disponibili ad offrire il proprio contributo per il successo di un tale
progetto politico che possa fare tornare utili e credibili i comunisti nella
società.
Siamo consapevoli che
la nostra crisi non si può risolvere rinchiudendosi in una mera logica
identitaria, ma puntando ad andare oltre il PdCI e il PRC.
È un impresa davvero
ardua e difficile, ma i comunisti hanno saputo affrontare momenti e situazioni
ancora più complesse e proibitive. La presenza di una forza organizzata dei
comunisti è necessaria per il Paese e per lo stesso rilancio della sinistra
politica e sociale. L’Italia ha bisogno dei comunisti.
FABIO NOBILE
MICHELANGELO TRIPODI
ITALO ARCURI
PAOLO BATTISTA
LUCA BATTISTI
FILIPPO BENEDETTI
ORESTE DELLA POSTA
FABRIZIO DE SANCTIS
LORENZO FASCI
ROSANNA FEMIA
GIOVANNI GUZZO
DANIELA LABATE
GIULIA LOCHE
GLORIA MALASPINA
CLAUDIO MASSIMILLA
SARA MILAZZO
GIOVANNINO SANNA
ISABELLA SARTOGO
MICHELE TRIPODI
SAVERIO VALENTI
FRANCESCO RIZZATI
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